giovedì 31 maggio 2012

Sondaggione

Miei cari lettori,
ho bisogno del vostro aiuto e della vostra partecipazione in massa, perciò vi prego di perdere un minuto e lasciare un commento per rispondere alla mia domanda: quale, fra tutti quelli pubblicati, è il vostro post preferito?

* ore 23.21: aggiungo una postilla esplicativa che vi solleciti ulteriormente. Il 21 giugno La gastronomica volante Stanislavskij compirà il primo anno di vita. Naturalmente ci saranno grandi festeggiamenti (di cui vi parlerò più dettagliatamente fra un po') durante i quali, fra l'altro, verrà fatto il reading di un post.
Perciò vi ripeto la domanda: voi quale vorreste ascoltare?

martedì 29 maggio 2012

Shopping!


Come immagino sia accaduto a molte altre esponenti dell'invisa categoria grandi obese, ho avuto fin dall'adolescenza un rapporto estremamente conflittuale con lo shopping.

Mentre le mie coetanee progettavano sabati pomeriggio passati in giro per negozi a cercare l'abito che avrebbero indossato per il loro diciottesimo compleanno, io me ne tenevo prudentemente alla larga sapendo che in quelle boutique avrei potuto comprare al massimo una sciarpa, e solo dopo essere stata squadrata con riprovazione dalle commesse.

Quando avevo 15 o 16 anni c'erano solo tre negozi che frequentavo con disinvoltura e autentico piacere: la libreria Marotta (che ormai non c'è più), Magico Oriente (dove però mi limitavo a comprare orecchini e bracciali, visto che gli anelli mi andavano tuttalpiù al mignolo e le collane su di me sembravano collari a strangolo) e don Mario il saponaro, che occupava ben tre dei quattro locali su strada del mio palazzo. 

Inutile dilungarsi su Marotta e Magico Oriente perché una libreria, per quanto amatissima, è pur sempre una libreria, e di negozi di gioielli etnici chissà quanti ne avrete visti. Tutt'altra storia invece per la puteca di don Mario.

Tanto per cominciare don Mario - altresì noto come meza mascella - era un guappo, e a metà degli anni '80 era l'ultimo esponente di una specie ormai estinta. Che fosse estate o inverno, lui vestiva di color crema dalle scarpe al cappello, e passava le sue giornate seduto su una poltrona nella penombra della parte più interna del negozio, fumando sigarette senza filtro con l'ausilio di un tozzo bocchino, anch'esso color crema.

A gestire gli affari per lui c'era il giovine del negozio, Antonio, che per la verità del giovane di bottega aveva il titolo, ma non certo l'età né tantomeno l'aspetto. Antonio aveva una faccia da roditore, ma simpatica, e la pelle ispessita da decenni di sole. Doveva aver avuto un passato da uomo di mare, perché c'era un che del pescatore in lui e il suo abbigliamento prevedeva solo due varianti: pantaloni neri e maglietta blu scollo a v d'estate, e pantaloni neri e maglione blu scollo a v d'inverno. 

Non credo abbia mai posseduto un cappotto, e se invece lo possedeva allora di sicuro lo indossava di nascosto, nel segreto del suo appartamento.

Naturalmente i tre locali del negozio erano uno più incredibile dell'altro. In tutti e tre c'era quell'odore secco della polvere e giusto un vago sentore di cera per mobili, ma così diafano e sfuggente da farti pensare a un'allucinazione olfattiva. Nulla era particolarmente prezioso, ma ogni cosa per me era particolarmente appetibile: bottiglie, bicchieri, pentole, piccoli mobili, cornici, macchine per cucire, chiavi, sedie, lumi.

La mia tecnica d'acquisto era una sola: la denigrazione. Facevo dei blitz esplorativi nel primissimo pomeriggio, mentre don Mario dormiva. Al riparo dal suo sguardo sornione, scrutavo i ripiani fino a individuare l'oggetto del desiderio quindi, pienamente soddisfatta, mi dileguavo silenziosamente.

Il giorno dopo, quando tornando da scuola passavo davanti al negozio, gettavo un'occhiata fintamente casuale all'interno per poi chiedere con noncuranza il prezzo dell'articolo puntato il giorno precedente. Don Mario la prendeva alla larga, cominciava a raccontarmi dove l'aveva trovato, a quale epoca apparteneva, quanto fosse raro. Lo lasciavo parlare poi, quando finalmente arrivava a dirmi il prezzo, io - a prescindere da quale fosse la cifra - sentenziavo che era troppo alto e che nessuno gli avrebbe mai dato tanto per quella schifezza.

Il fatto che io non mi degnassi neanche di fare una controfferta mandava don Mario fuori dai gangheri e allora vendermi quel tale oggetto diventava per lui un punto d'onore. Abbassava ogni giorno il prezzo di qualche migliaia di lire, proponeva di aggiungere altri articoli in omaggio, di farmi pagare a un tanto alla settimana, ma io continuavo a resistere.

Quando proprio non sapeva più cosa inventarsi, si appostava sulla soglia del negozio aspettando che mia nonna passasse lì davanti. Allora la salutava levandosi il cappello in segno di rispetto, quindi - quasi volesse intercedere in mio favore - le indicava l'oggetto del mio desiderio suggerendole implicitamente l'acquisto: "Signora baronessa... 'a piccerella smania pe' ll'ave'!"

Senza saperlo, era proprio la nonna a dargli il colpo di grazia. Lungi dall'assecondarlo, con il suo solito piglio autoritario proibiva al poveretto di effettuare la vendita (diceva proprio così: "don Mario, io vi proibisco di vendere questa fetenzia a mia nipote!") e minacciava di fargli chiudere il negozio, la cui presenza a suo dire costituiva un'onta per un palazzo tanto rispettabile.

Poche ore dopo, inevitabilmente, don Mario mi faceva convocare nella puteca da Antonio e lì, sprofondato in poltrona, negoziava la resa: "Piccere', io quella cosa che ti volevi comprare te la regalo... ma mi raccomando, nun dicere nient' 'a nonneta!"

Ho sempre avuto il sospetto che in fondo gli piacesse da morire tutto quel teatrino.

La macchinetta del caffè che compare all'inizio di questo post è l'ultimo regalo che ho ricevuto da don Mario. Gli anni sono passati, la puteca ha chiuso e don Mario e Antonio ormai non ci sono più.

Per parecchio tempo ho pensato che non avrei mai più ritrovato quel piacere di osservare la merce senza essere a mia volta osservata, di prendermi tutto il tempo che volevo per ponderare i miei acquisti... poi ho scoperto l'e-commerce.

Per quanto detesto andare in giro per negozi, tanto adoro curiosare in rete, scovare l'affare, trovare nuovi siti dove fare compere mentre mi tacito la coscienza ripetendomi che dopo aver tanto tribolato, ho diritto di togliermi finalmente qualche sfizio anch'io.

All'inizio a conquistarmi è stata la scoperta che se nel mondo reale avevo una probabilità di trovare vestiti della mia taglia pari allo zero assoluto, in rete la cosa non solo era fattibile, ma addirittura facile. Poi sono stata ammaliata dalla possibilità di comprare cose che avevo sempre desiderato ma che a Napoli erano rarissime: vecchie posate scompagnate in sheffield, la scrivania a rullo, libri fuori catalogo. Infine è on line che ho imparato a cercare accessori per la mia cucina (ho comprato il tritacarne per il Kitchen Aid di mamma da un tipo che gestiva un negozio in Giamaica e che me l'ha venduto a un prezzo stracciato) o ingredienti altrimenti irreperibili.

L'ultimo sito di cui mi sono infatuata è Degustaci, gestito da un manipolo di strenue esploratici che, girando in lungo e in largo la Campania, hanno selezionato il meglio di ciò che la mia regione produce (e si tratta di prodotti certificati: IGP, IGT, DOC, DOP, DOCG). Benché io sia campana, molti dei prodotti in vendita non li avevo mai neanche sentiti nominare, così, un po' perché sono curiosa, un po' perché mi sono fatta prendere la mano, ne ho ordinati ben 4.


Chiaramente se io ho gioito all'arrivo del corriere, il consorte era invece molto perplesso e continuava a domandarsi (e domandarmi) che diavolo ci avrei fatto con quella roba (!). Così, giusto per zittirlo, mi sono subito messa ai fornelli...


POLLO CON LE PESCHIOLE
per 4 persone

1 petto di pollo
200 g di peschiole
2 spicchi d'aglio
5 foglie di salvia
4 cucchiai d'olio EVO
5 cl di aceto di vino bianco
sale
farina bianca qb

Immagino che alcuni di voi si stiano chiedendo cosa siano le peschiole (io me lo sono chiesta), perciò vado a illustrare.

Le peschiole sono una specialità di Vairano Patenora, ameno comune in provincia di Caserta da cui in genere passo per andare a Roccaraso, fermandomi talvolta a mangiare all'ottimo Vairo del Volturno. Le peschiole sono - come in effetti si evince dal nome - delle piccole pesche (più precisamente noci pesche) che vengono colte dall'albero quando misurano un paio di centimetri e al loro interno non si è ancora formato il nòcciolo. Le peschiole vengono bollite in acqua e aceto, aromatizzate con spezie e poi conservate sotto vetro. La grandezza e il colore ricordano quello delle olive verdi, ma quando le si morde risultano invece incredibilmente croccanti e il sapore, se in un primo momento richiama alla mente i cetriolini sottaceto, ha una nota finale dolce e fruttata che spiazza piacevolmente.

Adesso che vi ho edotti, vi spiego come le ho usate. Ho lavato il petto di pollo, l'ho asciugato e l'ho ridotto in tocchetti che poi ho infarinato appena. Intanto ho fatto rosolare gli spicchi d'aglio in una padella ampia e, quando sono imbionditi, vi ho aggiunto il pollo che ho fatto dorare in maniera omogenea. A questo punto ho unito la salvia, le peschiole tagliate in sei spicchi, il sale, l'aceto e altrettanta acqua tiepida. Ho lasciato cuocere a fiamma bassa fin quando non si è formata una cremina lucida e ho servito immediatamente.

Et voilà, il consorte è rimasto senza parole!


PS: Volete sapere cos'ho preparato con gli altri tre prodotti che ho comprato? A partire da domani troverete le ricette sulla pagina facebook del blog.

lunedì 14 maggio 2012

Viva gli sposi


L'altra sera una coppia di amici ci ha invitati a prendere un aperitivo per festeggiare il fatto che, dopo quasi vent'anni insieme, due figlie, due cani e una provvidenziale tata ucraina, fossero andati a dare parola in comune per convolare finalmente a nozze.

Con molta tenerezza, tenendosi per mano come se si fossero innamorati solo un mese prima, ci hanno raccontato dei loro progetti per la cerimonia e per il ricevimento, nonché della perplessità delle loro figlie - credo di undici e otto anni - che non capivano perché fosse necessario cambiare un regime familiare ormai ben collaudato.

Così, forse influenzata dal fatto che a prendere quell'aperitivo eravamo in otto, quattro amiche affiatatissime con i loro rispettivi compagni, tornando a casa mi sono sentita un po' Carrie Bradshow (con quegli ottanta chiletti di troppo) e ho cominciato a farmi la seguente domanda: ma com'è che improvvisamente si sente il bisogno di sposarsi?

Per quanto mi riguarda, a spingermi a chiedere la mano dell'allora futuro consorte fu il desiderio di far diventare la nostra coppia una famiglia. Dopo quattro anni di una convivenza a tratti esilarante e a tratti molto faticosa, in cui avevamo dovuto imparare innanzitutto a conoscerci dato che l'avevamo cominciata esattamente tre mesi dopo esserci visti la prima volta, io volevo che smettessimo di essere due ragazzini capitati lì un po' per caso, e cominciassimo a essere due adulti con dei progetti.

Scoprendomi molto più tradizionalista e nostalgica di quanto avessi mai creduto, convinsi il promesso sposo a giurarmi eterno amore in chiesa perché volevo che tutto fosse esattamente come l'avevo immaginato da bambina, prima che spirito ribelle, desiderio d'indipendenza e istinto di conservazione mi facessero decidere (e sostenere per vent'anni) che non mi sarei mai sposata.

Sulla carta tutto era perfetto. Ci saremmo sposati il 5 febbraio, giorno del nostro quarto anniversario di convivenza, che - coincidenza meravigliosa - capitava di sabato. Ci saremmo sposati alle sette di sera nella minuscola chiesa del Santissimo Redentore, fiabesca e da me molto amata. Ci avrebbe sposati Monsignor Mercurio, ormai ottantenne, che mi conosceva da quando avevo dieci anni. Ci saremmo sposati circondati da una quarantina di amici, i più cari, che poi avremmo invitato a cena in un grande albergo dal fascino retrò, situato proprio accanto alla chiesa.

Sorprendendo tutti fui una promessa sposa che non conosceva indecisione. Sapevo perfettamente ciò che volevo, avevo tutto sotto controllo.

A ripensarci adesso, probabilmente il fatto che durante tutta l'organizzazione non ci fosse stato nessun disguido, nessun contrattempo, avrebbe dovuto mettermi in guardia, ma all'epoca non ci feci caso e quindi - povera me - ero completamente impreparata a tutto ciò che successe in quel fatidico 5 febbraio 2005.

Il buongiorno si vede dal mattino, e fu quindi di buonora che avemmo la prima cattiva notizia: Monsignor Mercurio aveva l'influenza. Cercai di non preoccuparmi ma quando seppi che Padre Luciano, il viceparroco, non aveva mai celebrato un matrimonio, mi tornò in mente con orrore Rowan Aktinson e cominciai a temere il peggio.

Per farmi coraggio continuavo a dirmi che tutto sarebbe andato come previsto, ma a smentirmi arrivò a casa il Signor Bobobò, designato alla lettura del salmo, per comunicarmi che Padre Luciano aveva deciso di cambiare le letture. Visto che quello era il suo primo matrimonio, voleva fare le cose in grande, non gli andava per nulla di sposarci con il rito abbreviato che avevamo concordato con Monsignor Mercurio.

Fosse stato per me, mi sarei precipitata in parrocchia per richiamare Padre Luciano all'ordine, ma mia nonna mi annunciò profeticamente che di certo avrei avuto altro di cui preoccuparmi e mi esortò a non perdere tempo in cose inutili.

Così ricontrollai il planning della giornata: prima che arrivassero le sette di sera e mi presentassi - puntualissima - in chiesa, c'erano tutta un'altra serie di cose che dovevano accadere.

A ora di pranzo sarebbero dovuti arrivare da Roma mio fratello con la moglie e la mia prima nipotina, verso le due la sarta mi avrebbe consegnato l'abito da sposa mentre il fioraio sarebbe andato ad addobare la chiesa per poi passare da casa a portare il bouquet e le bottoniere per mio padre e il futuro consorte e dal parrucchiere a lasciare i fiori per la mia acconciatura.

Io avrei avuto il tempo di far sistemare fratello, cognata e nipotina nella loro stanza, di preparare tutto il necessario per la vestizione del futuro consorte nella nostra, di preparare abito da sposa e beautycase in camera di mia madre, dove avrei potuto vestirmi lontano da sguardi indiscreti, e poi sarei andata dal parrucchiere con mamma e Carla.

Quella fu l'ultima volta in cui riuscii ad avere una parvenza di controllo della situazione, perché da quel momento in poi cominciò la catastrofe.

Mio fratello era in ritardo, la sarta aveva l'auto guasta, il fioraio aveva trovato la chiesa chiusa e non si riusciva a rintracciare Padre Luciano perché l'aprisse. Mandai mio padre a recuperare il vestito e il futuro consorte a scassinare la porta della chiesa mentre io, già molto molto nervosa, andavo dal parrucchiere con Carla e mamma.

Ora io non so se nei quindici giorni trascorsi dal momento in cui avevamo stabilito il tutto sia il parrucchiere che il fioraio fossero stati colpiti da alzheimer fulminante o se volessero semplicemente fare di me un'assassina, ma sta di fatto che il fioraio aveva consegnato per la mia acconciatura delle orchidee - l'unico fiore che avevo espressamente vietato - e il parrucchiere, lungi dal pettinarmi con la semplice mezza coda che avevamo concordato, cominciò a costruire sulla sommità della mia testa una sorta di torre di Pisa prossima al crollo e in piena fioritura.

Più gli dicevo che quella non era la pettinatura che volevo, più sosteneva che infatti era molto più bella, e a nulla valevano lamentele, strepiti e perfino minacce, il dannato pretendeva che prima di giudicare dovessi lasciarlo almeno finire.

Quando fu evidente che se lo avessi assecondato non avrei fatto altro che garantirmi un'accoglienza in chiesa a suon di fischi e pernacchi, mi alzai dalla sedia e me ne andai via trascianando con me Carla, mentre mamma rimaneva a consolare l'attonito coiffeur che mai aveva subìto un oltraggio simile.

Ma fu nell'ascensore, quando mi guardai allo specchio, che accadde il peggio. In preda a una rabbia incontenibile, perché ormai era chiaro che niente sarebbe andato come avrei voluto, visto che ero acconciata con un'impalcatura degna di Moira degli elefanti, mi strappai dalla testa fiori, forcine, nastri, nani, ballerine e giocolieri e scoppiai a piangere.

Mentre la mia mamma continuava a essere ostaggio del parrucchiere, a casa la situazione non era migliore.

Il mio dispotico fratello si era sistemato con tutta la famiglia nella camera dove c'erano le mie cose e io avrei dovuto vestirmi, il fioraio non aveva consegnato le bottoniere ma in compenso aveva portato un bouquet gigantesco e osceno, completamente diverso da quello che avevo scelto, e il futuro consorte, vittima dell'ansia, si era fatto un'overdose di xanax ed era inservibile.

Chiusa nel bagno con Carla, continuavo a disperarmi e a dire che ormai tanto valeva mandare a monte il matrimonio e intanto, al di là della porta, mia nonna, mio padre e il futuro consorte mettevano in scena uno spettacolo degno di Ionesco.

La nonna - all'epoca ottantottenne - sosteneva che non dovevo fare una tragedia per qualche capello (sigh!) fuori posto, in fondo anche lei non era molto soddisfatta del lavoro del suo parrucchiere ma non si lamentava! Mio padre continuava a suggerire al futuro consorte di non sposarmi visto che ero evidentemente folle (ari sigh!) e il mio promesso sposo, rintronato dallo xanax, mi supplicava perché gli aprissi: essendo confuso, si era messo negli occhi il collirio a uso esclusivamente veterinario dei nostri cani e, temendo effetti collaterali devastanti, tipo la cecità, era diventato paonazzo per la paura quindi voleva che gli prestassi un po' di fondotinta per mitigare il rossore del collo e delle orecchie (ari ari sigh!).

Fortunatamente tornò a casa mamma che, vestendosì d'autorità, mandò tutti in chiesa e, quando rimanemmo sole, coadiuvata dalla provvidenziale Carla che andò a recuperare mollette e forcine nell'ascensore, mi pettinò, mi aiutò a vestirmi, a truccarmi e, finalmente, mi rese una sposa quantomeno accettabile, sebbene molto ritardataria.

Per il resto, se non si tiene conto del fatto che mio padre inciampò entrando in chiesa e, per non cadere, attraversò la breve navata al piccolo trotto costringendomi a fare lo stesso, o del fatto che per gran parte della cerimonia fummo accompagnati dallo squillo di un cellulare e aspramente redarguiti da Padre Luciano per non aver spento i telefoni, salvo poi scoprire che il cellulare incriminato era proprio il suo, o del fatto che fumando una sigaretta (eh sì, all'epoca peccavo ancora) detti fuoco al vestito da sposa, tutto filò liscio.

Fu al momento del caffè che questo matrimonio in stile Hollywood Party raggiunse il clou quando, addentando in un afflato di insopprimibile golosità il cucchiaino di cioccolato fondente che accompagnava il caffè, sentii un piccolo crac e realizzai di aver frantumato una delle preziose capsule in porcellana che tanto mi sono costate.

Fortunatamente il mio dentista è un amico fraterno e quindi era fra i pochi invitati al matrimonio, così - congedati in fretta e furia tutti gli altri - fu nel suo studio, aperto per l'occasione alle due del mattino, che io e lo sposo concludemmo i festeggiamenti con me, in vestito da sposa e bavetta verde chirurgico, e il consorte nell'improbabile ruolo di assistente di poltrona che cincischiava con l'aspiratore nella mia bocca spalancata.

Quando tornammo in albergo - dopo che io mi ero chiusa lo strascico del vestito nello sportello dell'auto macchiandolo di grasso - e finalmente ci mettemmo a letto, a stento riuscivamo a parlare tanto era stata devastante l'intera giornata.

Io, un po' mortificata, provai a imbastire un discorso di scuse. Lo sapevo che quella era la nostra prima notte di nozze... ma in fondo erano quattro anni che condividevamo il talamo (pre)nuziale... forse non era poi così necessario seguire la tradizione alla lettera, non era d'accordo anche lui?

Non mi giunse risposta, se non un russare sommesso che incrinava appena il silenzio della notte.


ZUPPETTA DI COZZE ALLA NAPOLETANA
Per un reggimento

2 kg di cozze
1/2 kg di pomodorini
abbondante olio EVO (va be', diciamo 6 o 8 cucchiai)
2 bei spicchi d'aglio (io uso alternativamente quello campano e quello rosa di Sulmona. Fate voi) 
1 pugno di prezzemolo tritato finemente
8 fette di pane cafone raffermo
sale e pepe


Siccome non faccio che ripetere che quelle mie e del consorte più che nozze furono cozze, questa ricetta mi sembrava perfetta in abbinamento al post. Poi, prima che nascano polemiche, so benissimo che siamo ormai entrati nei famigerati quattro mesi senza R in cui i frutti di mare non sono al meglio e so anche che tradizionalmente questo piatto a Napoli si prepara il giovedì santo. Ma d'altronde voi ormai sapete che qui si va contro stagione.

Nonostante le cozze siano molto amate dal consorte (probabilmente non è un caso che mi abbia sposata), io non le cucino spesso perché detesto pulirle. Nel caso condividiate lo stesso odio per la simpatica operazione, sappiate che io ho brillantemente risolto comprando quelle già pulite e confezionate sotto vuoto Viversano di Carrefour. Se poi avete un pescivendolo fidato che oltre a garantirvi la freschezza delle cozze ve le pulisce pure, meglio per voi.

Sappiate comunque che la pulizia delle cozze è la cosa più noiosa e complicata di questa ricetta, per il resto semplicissima.

Si procede così. In una pentola capiente, fate rosolare uno spicchio d'aglio in 2 o 3 cucchiai d'olio e poi versateci le cozze pulite che condirete con abbondante pepe nero macinato al momento. Coprite con un coperchio e lasciate cuocere scuotendo energicamente la pentola di tanto in tanto fin quando le cozze con si saranno aperte. Intanto, in un tegame bello grande, preparate una salsa di pomodoro rosolando in quattro cucchiai d'olio l'altro spicchio d'aglio e aggiungendoci i pomodorini tagliati a tocchetti e un'idea di sale. Cuocete a fuoco vivace i pomodori, quasi friggendoli, fin quando la polpa non avrà perso l'acqua di vegetazione e sarà diventata morbida. Aggiungete il prezzemolo tritato e tenete da parte. Nel frattempo, cercando di non ustionarvi, private le cozze della valva che non contiene il mollusco e mettete l'altra nel tegame con il sugo. Fnita questa operazione, aggiungete il liquido di cottura delle cozze filtrato in un passino a maglia fine. Tagliate a tocchetti il pane cafone privato della scorza, mettetelo in una ciotola e conditelo con l'olio rimasto, mescolando bene, quindi fatelo tostare in forno (tradizione vorrebbe che il pane fosse fritto, ma io preferisco semplificarmi la vita).


Per gustarla bisogna destreggiarsi fra mani, forchette e cucchiai, perciò rassegnatevi alla macchia.
E naturalmente leccatevi le dita.