domenica 19 febbraio 2012

Perché Sanremo è Sanremo!


Ogni anno, a metà febbraio, passo cinque serate a tirar tardi davanti alla tv per poi ripromettermi, giunta ormai esausta e nauseata alla fine della quinta, di non farlo mai più. Eppure ogni anno ci ricasco. Mantengo un certo aplomb e un'aria studiatamente disinteressata fino alla fine - Hai visto chi c'è in gara? No e non m'importa, tanto io quest'anno non lo guardo. Hai visto che hanno annunciato i super ospiti? No ma sai, sono alle ultime cento pagine di Infinite Jest e sono presa solo da quello. Veniamo tutti da te a guardare la finale? No amici cari, mi dispiace, io ormai sono fuori dal tunnel e sabato sera il consorte guarda la partita della Juve. - ma poi puntualmente, alle 20.40 del fatidico martedì d'apertura, la casalinga di Voghera che segretamente alberga in me viene risvegliata dal lungo letargo (immagino con un segnale in codice; che so, il jingle della trasmissione) e si sintonizza su rai uno.

Quest'anno è andata esattamente come tutti gli altri da quando ne ho memoria, ma oggi che la lunga apnea è finita e sono tornata alla vita normale, ho cominciato a interrogarmi sul perché di una tale dipendenza. Per quale motivo io non posso fare a meno di guardare quel guazzabuglio di scenografie pacchiane, di pubblicità eterne e di canzoni mediocri che è Sanremo? Alla fine la risposta è stata disarmante nella sua semplicità: perché è liberatorio.

Guardare Sanremo regala lo stesso sottile piacere che si prova quando si è alla guida e si insultano gli altri automobilisti anche se non hanno fatto alcunché. Guardare Sanremo regala l'accanimento a prescindere.

Ti piazzi davanti al televisore e già sai che non ti andrà bene niente (e d'altra parte nessuno sano di mente potrebbe darti torto, quindi il piacere è doppio perché ti accanisci sapendo di essere nel giusto). Ti accanisci contro il siparietto comico d'apertura che non fa ridere, contro il balletto che è fuori contesto (poi qualcuno mi spiega che c'entrano Kubrick e 2001 odissea nello spazio con il festival della canzone italiana), contro il presentatore che neanche per un istante riesce a sembrare disinvolto e a non leggere, con grande difficoltà, le battute dal gobbo (mi è perfino venuto il dubbio che Morandi sia dislessico).

Ti accanisci contro i cantanti che non ti piacciono perché li hanno selezionati e sono in gara, contro quelli che ti piacciono perché sono caduti così in basso da partecipare a Sanremo, contro il pubblico in sala che applaude quello che tu fischieresti, contro le vallette pagatissime e incapaci, contro i vestiti improponibili e quelli troppo dimessi, contro chi predica per 50 minuti, poi continua a predicare quattro giorni dopo (ma stavolta perfino il pubblico ossequiante non ne può più e fischia), contro gli ospiti stranieri troppo altezzosi (che diamine, ma lo hanno capito o no che sono a Sanremo!), contro quelli scelti per i duetti che sono stati tirati fuori dalla naftalina giusto per l'occasione, oppure hanno palesemente fatto abuso di droghe subito prima di salire sul palco e non sono in grado di reggersi in piedi, figuriamoci di cantare. 

Ti accanisci anche quando entra in scena la coppia più improbabile della canzone italiana - formata dalla vecchia gloria che, dopo averlo imboccato, il viale del tramonto lo ha anche percorso quasi tutto, e dal cantante tamarro che cerca di affrancarsi dalla propria tamarritudine - ed è fin troppo facile accanirsi. 

Allora l'accanimento diventa virtuosismo e ti diverti a trovare l'epiteto giusto per marchiarli a fuoco una volta per tutte e renderli davvero indimenticabili. Lui sembra un pusher di periferia e lei una fattona, lui un pappone e lei un trans, lui uno dei village people e lei un boiler addobbato per l'infiorata di Genzano. Sulla canzone in sé taci, perché bastano loro e il modo in cui la cantano: lui a fronna e limone (come sempre. Canta così qualsiasi cosa) e lei emmettendo pochi suoni - perché ha perso la voce per strada e il cortisone non basta più a tirargliela fuori - e pronunciando frasi incomprensibili - perché fra lifting, botox e filling labiale ormai ha il viso paralizzato e a stento riesce a proferire verbo.

È una tale apoteosi dell'accanimento che quando all'improvviso ti accorgi che una canzone non ti dispiace, anzi ti piace e pure parecchio, quasi te ne vergogni. Aspetti a vedere se intanto lo dice qualcun altro, se un tuo collega accanimentista come te ha avuto a propria volta un calo dell'accanimento. Ma intanto è fatta perché la canzone hai già cominciato a cantarla senza rendertene conto (dannato orecchio assoluto!) e quando arriva la notte, la notte e resti solo con te...

Poi succede che qualcuno ti telefona venerdì e ti chiede se ti farebbe piacere andare con lui al San Carlo il giorno dopo per assistere a una Lucia di Lammermoor che tutti dicono essere strepitosa. Sai, ho due biglietti per il palco reale - aggiunge con noncuranza. Allora, come riemergendo da una trance indotta da un qualsiasi Giucas Casella, ti desti. La casalinga di Voghera torna a nascondersi nei meandri del tuo inconscio e tu torni a essere quella che era presissima dalla lettura delle ultime cento pagine di Infinite Jest.

Così passi un inizio di serata memorabile, guardando e ascoltando una Lucia di Lammermoor meravigliosa, con un Edgardo bello e bravo come non mai e una Lucia disperatamente virtuosa pur senza cadere mai nel virtuosismo fine a se stesso, e ti dici che quello è cantare, quella è musica! Poi continui la serata a cena fuori, mangi bene, chiacchieri ancor meglio, bevi di gusto e sei davvero felice perché da tempo non passavi una serata così bella.

Poi la serata finisce e tu e il consorte tornate a casa stanchi e appagati. Ormai è tardi, tu ti spogli e vai in bagno a struccarti e, mentre sei lì, senti che il consorte ha acceso il televisore. In un attimo il famoso jingle risuona nella casa silenziosa e in un attimo la casalinga di Voghera è di nuovo lì. Ma come, non è ancora finito Sanremo? - trilli gioiosa mentre scalzi il consorte dal divano, t'impossessi del telecomando, alzi il volume e ti godi tutto il ballottaggio per i primi tre posti, con relative esibizioni.

Naturalmente vince chi si sapeva avrebbe vinto, ma va bene così. Fra sistemi di votazione tarocchi (sappiamo che con i call center si può falsare il voto ma al momento non siamo in grado di impedirlo, perciò vi chiediamo di essere corretti e votare secondo regolamento, recita compito Morandi annunciando il televoto), esibizioni del comico dedito al turpiloquio più che alla battuta divertente, e una clamorosa sequela di gaffe, vongole e imprevisti, ti garantisci un'ulteriore buona oretta di accanimento, e quando alla fine vai a dormire e ti rannicchi sotto il piumone, sospiri di puro piacere.

Ah, che giornata perfetta!


PATATINE FRITTE (DELLA BUSTA)

Patate
Olio di semi di arachide
Sale

Non esiste svacco davanti alla tv che non necessiti di un po' di sano junk food da mandar giù compulsivamente, è una regola alla quale non si sfugge. Queste patatine poi rappresentavano per me un autentico tabù culinario perché, quando ero bambina, più di una volta la mia tata mi aveva irretita con la promessa delle patatine fritte COMEQUELLEDELLABUSTA! propinandomi invece dei dischetti piatti e mollicci, privi di qualsiasi appeal. Credo che il mio trauma infantile sia stato condiviso da più di un bambino illuso con la medesima promessa da una mamma zelante ma poco pratica, e pertanto incapace di replicare in modalità casalinga quella meraviglia industriale, perciò ora che ne ho scoperto i misteri, li divulgo con piacere, certa che me ne sarete grati.

I segreti per la chips perfetta sono tre: il taglio, il lavaggio e l'ammollo (!). Per un buon risultato finale, le fettine di patata non dovranno superare il millimetro di spessore. I metodi per ottenere delle fettine sottili e regolari sono vari. Quando il consorte compì quarant'anni, tagliai le patate con l'affettatrice elettrica (ma lì era una questione anche di quantità, visto che ne feci 4 kg), ma si può tranquillamente usare una mandolina di buona qualità o più semplicemente il pelapatate, avendo cura di non premere troppo e sfiorare appena la superficie del tubero.


Compiuta questa operazione, bisogna mettere le fettine di patata in una ciotola, piazzarle sotto l'acqua corrente, e sciacquarle fin quando non avranno perso tutto l'amido, ossia fin quando l'acqua da lattiginosa non diventerà trasparente.



A questo punto bisogna assicurarsi che l'acqua sia freddissima e dimenticarsi delle patate per ventiquattro ore. In questo lasso di tempo, non chiedetemene il motivo, le fettine cominceranno a incurvarsi al centro e ondularsi lungo i margini, assumendo così, benché ancora crude, il tipico aspetto della patatina industriale. Scolatele, asciugatele per bene in un canovaccio pulito che scuoterete ripetutamente, quindi friggetele in olio caldo fin quando non saranno dorate.


Asciugatele su carta paglia per privarle dell'olio in eccesso e servitele secondo i vostri gusti. Vanno bene sia calde che fredde, accompagnate con sale maldon, pepe nero marinato nel porto e sciroppo di balsamico se volete dar loro un tono gourmand, oppure con maionese e ketchup se siete stati adolescenti negli anni '80 e ne avete nostalgia o, più semplicemente, potete gustarle nature.

Come se fossero appena uscite dalla busta.


martedì 7 febbraio 2012

Duecento ma non li dimostra


Ci siamo conosciuti tardi, io e Charles Dickens. Forse è stato a causa dei miei anni di liceo ribelli e anarchici che mi portavano a evitare con cura tutto ciò che era istituzionale e a esplorare invece territori diversi, che fosse la California di Jack Kerouac o il Perù di Manuel Scorza. O forse è stato semplicemente il destino, perché gli incontri importanti, quelli che poi ti segnano la vita, avvengono senza regole, nel momento esatto in cui devono avvenire.

Nel mio caso fu nel 1995, quando Einaudi pubblicò nei tascabili Casa Desolata. Lo comprai con un'ombra di scetticismo perché il mio cuore in quel momento apparteneva a Carver, conquistato - credevo per sempre - dalla sua prosa scarna, dai suoi periodi brevi. Dickens andava letto, e su questo ero d'accordo, ma su una come me che dopo quel ramo del lago di Como aveva dichiarato guerra alle descrizioni, di sicuro non avrebbe fatto presa.

Lo cominciai a leggere in tram, tornando a casa in una Torino imbiancata dalla neve e al secondo paragrafo rimasi folgorata: Nebbia ovunque. Nebbia su per il fiume, che fluisce fra isolette e prati verdi; nebbia giù per il fiume che scorre insudiciato tra file di navi e le sozzure che giungono alla riva di una grande (e sporca) città. Nebbia sulle paludi dell'Essex, nebbia sulle alture del Kent. Nebbia che s'insinua nelle cambuse dei brigantini di carbone; nebbia sparsa sui cantieri e librata nel sartiame dei grandi bastimenti; nebbia sospesa sulle falchette dei barconi e dei piccoli battelli. Nebbia negli occhi e nella gola dei decrepiti pensionati di Greenwich che respirano a stento accanto ai focolari delle loro camerate; nebbia nel bocchino e nel fornello della pipa pomeridiana dell'iroso capitano di lungo corso rintanato nella sua cabina; nebbia che morde crudelmente le dita dei piedi e delle mani del piccolo mozzo intirizzito in coperta. Passanti occasionali che sui ponti guardano dal parapetto un infimo cielo di nebbia, avvolti essi stessi nella nebbia come in una mongolfiera sospesa tra nuvole oscure.

Questo è cinema. Quarantatre anni prima che i fratelli Lumière girassero il loro primo film, Dickens aveva già una scrittura cinematografica e a pensarci bene questa Londra in bianco e nero, dove la grande prospettiva viene alternata al dettaglio, non è poi tanto diversa dalla Manhattan descritta da Woody Allen quasi un secolo e mezzo dopo.

Da quel pomeriggio di diciassette anni fa, io e Dickens non ci siamo più lasciati. Lo consulto come la mia bisnonna Titta consultava Il talismano della felicità, certa che fra le sue pagine avrebbe trovato ogni risposta. C'è tutto in Dickens: il romanzo sociale, quello d'appendice, quello comico, quello gotico, quello poliziesco - di cui è probabilmente il creatore anche se poi il primo romanzo di genere fu scritto da Wilkie Collins.

Benché sia in possesso di ogni opera di Dickens che sia stata pubblicata, confesso di non aver letto tutto. Non ancora. Non finché posso. Mi piace talmente perdermi fra quelle pagine, lasciarmi sorprendere da quelle incredibili trame perfettamente ordite, che la prospettiva di non aver più nulla da leggere, di non provare più il brivido del come andrà a finire, m'intristisce irrimediabilmente.

Così centellino le letture; mi concedo un romanzo nuovo ogni tre anni, magari ogni quattro. E intanto rileggo, perché fortunatamente c'è sempre qualcosa che è sfuggita alla precedente lettura, il piacere che i romanzi di Dickens mi regalano non si esaurisce in una volta sola.

È colpa di Dickens se Londra non mi piace, perché la mia Londra è quella descritta da lui, non quella pragmatica e tirata su in fretta col cemento faccia vista e gli infissi di alluminio anodizzato, dopo la seconda guerra mondiale. È colpa di Dickens se tanti romanzi, tanta fiction, tanto cinema mi sembrano un blando deja vu. È colpa di Dickens se nell'armadio della mia cucina sono allineate marmellate, sottaceti, chutney, spezie, biscotti e farine, perché dopo aver letto e riletto la stupefacente descrizione della credenza della madre del reverendo Septimus e del suo meraviglioso contenuto, che il buon Charles fa ne Il mistero di Edwin Drood - il suo ultimo romanzo, rimasto incompiuto (e io che darei per sapere come l'avrebbe terminato!) - mi struggo dal desiderio di possederne una uguale.

Oggi Charles Dickens avrebbe compiuto 200 anni. Sono 200 anni splendidamente portati, il signore invecchia bene vedendo di anno in anno aumentare il proprio fascino. Quest'anno è il suo anno e chiunque si affanna per celebrarlo, omaggiarlo, ricordarlo con reading, mostre, dibattiti, film.

Io lo faccio in privato, rileggendo Casa Desolata, il libro che fece scoccare la scintilla, e sorseggiando un buon tè.
Naturalmente all'inglese.


SCONE
Per 18 pezzi

500 g di farina
1 cucchiaino di sale
30 g di bicarbonato di sodio
80 g di burro freddo a cubetti
300 ml di latticello (ottenuto mischiando 150 ml di latte intero con 150 ml di yougurt naturale)
1 tuorlo d'uovo sbattuto con 2 cucchiai di panna per spennellare la superficie

Non c'è tè all'inglese degno di questo nome che non sia accompagnato da uno scone spalmato di clotted cream e addolcito da un cucchiaino di marmellata di fragole. Tutto il resto è un di più, ma lo scone è e resta l'essenziale.

Farli è abbastanza facile soprattutto se agite da esseri del ventunesimo secolo e vi affidate alle prodezze di un buon mixer. Perciò, mentre il forno si preriscalda a 200° (che fine hanno fatto i soliti 180°?), setacciate nel bicchiere del mixer farina, sale e bicarbonato e fate andare per qualche secondo in modo che si mescolino bene. A questo punto aggiungete il burro ben freddo e tagliato a cubetti. Azionate il mixer a intermittenza, fino a ottenere un composto sabbioso e slegato. Unite il latticello e accendete nuovamente il mixer lavorando giusto il tempo necessario ad amalgamare il tutto, ma non di più.

Levate l'impasto dal mixer e, maneggiandolo il meno possibile, adagiatelo su una spianatoia ben infarinata e stendetelo con il matterello a uno spessore di 3 cm. Usando un coppapasta infarinato di 5 cm di diametro, tagliate dei dischetti. Ricompattate l'impasto velocemente e ripetete l'operazione fin quando non l'avrete esaurito. 

A questo punto distribuite gli scone su una teglia foderata di carta forno ben distanziati gli uni dagli altri, spennellateli con l'uovo e la panna e infornateli in forno ventilato per 10 minuti o finché non saranno ben gonfi e dorati. Sfornateli, sistemateli a intiepidirsi su una gratella e serviteli prima che si raffreddino del tutto, quando saranno ancora fragranti e profumati.



P.S.: se vivete in Italia e non riuscite a reperire la clotted cream da nessuna parte, non disperate. Potete ricrearla un po' empiricamente, ma con un risultato più che soddisfacente, mescolando 120 g di mascarpone freschissimo a 250 g di panna fresca montata (suggerisco la Matese). Aggiungete 1 cucchiaio di zucchero semolato fine, i semini di un baccello di vaniglia e lasciate riposare in frigo per un'oretta prima di servire.

Ma soprattutto non ditelo a nessuno. Non oso pensare cosa direbbero i puristi.