giovedì 26 gennaio 2012

Enciclopedia

 
Già qualche anno prima che Gianni Morandi, accogliendo senza alcuna esitazione nella propria roulotte il gufo con gli occhiali, la lepre in tuta rossa, il canarino ferito, il ghiro dormiglione, il topo campagnolo, il picchio col martello e il grillo chiacchierone, mandasse in crisi un'intera generazione di genitori che non avevano intenzione di fare altrettanto, io avevo cominciato ad assillare i miei con un'unica domanda ricorrente: "lo posso tenere?".

In mancanza della varietà offerta da un bosco, mi affezionavo tenacemente a qualsiasi creatura trovassi nella terrazza di mia nonna. Che si trattasse di un onisco, di un piccione moribondo, di una lumachina o di una coccinella, una volta che erano entrati a far parte della mia vita non volevo più separarmene.

Naturalmente mia madre non mi ha mai permesso di tenere con me un verme cicciotto come animale da compagnia, però io non ho desistito e, a testimonianza del fatto che chi la dura la vince, quando cominciai a portare a casa cuccioli di specie un po' più ortodosse, come gatti e cani, era talmente estenuata da non riuscire a opporsi ulteriormente.

La mia infanzia e la mia adolescenza sono quindi state spese in una sorta di zoo domestico dove cani e gatti, a ondate varie, hanno sempre convissuto amenamente e con piacere reciproco e a me, col tempo, è cominciato a sembrare strano che potessero esserci famiglie che non avessero almeno un pesciolino rosso.

Quando io e il consorte ci siamo conosciuti, la situazione in casa era la seguente: il capobranco era Il Ciuli (in origine Pechino poi diventato Micio, poi Miciulino, poi Ciulino e quindi Il Ciuli), splendido persiano rosso che io e mio fratello avevamo regalato ai nostri genitori per il loro venticinquesimo anniversario di matrimonio, che passava dieci mesi all'anno a dormire, mangiare e fare poco altro, per poi scatenarsi nei due mesi di villeggiatura estiva a Roccaraso. Allora, ricordandosi di essere un gatto, pretendeva di uscire la notte a caccia e non si ritirava mai prima dell'alba, entrando con destrezza dal finestrino socchiuso del bagno.

Poi c'era (è c'è ancora) Suerte, recuperata con tutta la cucciolata di notte, nel bel mezzo della carreggiata della statale che passa da Vastogirardi. Rischiammo di investirli tutti, quei cuccioletti, perché erano addossati gli uni agli altri per cercare di farsi calore e formavano un mucchio indistinto, come di stracci vecchi, al centro della strada. Solo all'ultimo momento io mi accorsi che erano cani, e costrinsi papà a schiacciare con forza il pedale del freno.

Di tutta la cucciolata, che fu accolta da famiglie amorevoli e selezionatissime, decisi di tenere con me un maschio che chiamai Fidel salvo poi scoprire, alla prima visita dal veterinario, che non si trattava affatto di un maschio. Fidel si trasformò in Suerte, un po' perché oramai si era inaugurato un filone spagnolo, un po' perché la cagnola era stata davvero fortunata.

Infine, seppure con qualche anno di ritardo, Fidel arrivò davvero. Uno scugnizzo napoletano che si gettò davanti alla mia auto mentre io e le due gravide stavamo andando al corso di critica cinematografica. Fortunatamente Fidel - il cucciolo più bello che io abbia mai visto, da cui la vergognosa filastrocca cantata per farlo divertire "piccolo Fidel, tu sei un cane bel" - era così piccolo da passare indenne sotto l'auto, mentre io invece rischiai l'infarto.

La prima volta che, approfittando di una provvidenziale partenza dei miei, il consorte s'intrattenne piacevolmente con me fino a tarda notte, fu poi costretto a tornarsene a casa senza mutande e senza calzini (ed era dicembre) perché, mentre noi eravamo in altre faccende affaccendati, Fidel li aveva ridotti in coriandoli. Da qualche parte sul polpaccio poi, il poveretto deve avere ancora il segno dei denti di Suerte, che non gradì affatto cedergli il proprio posto sul letto.

Con queste premesse, quando un paio di settimane dopo il consorte mi chiese di andare a vivere con lui, temetti di trovarmi di fronte al più classico degli aut aut: o me o i cani. Lui però - conquistandomi definitivamente - chiarì subito che la mia prole sarebbe venuta con noi. Non si separa una mamma dai suoi pargoli!

Da allora sono passati undici anni e la famiglia si è ulteriormente allargata quando, a marzo del 2002, accogliemmo in casa Pilar, una cockerina tricolore che sembrava uscita dritta dritta da un'illustrazione di Norman Rockwell, e che ci decidemmo a comprare dopo averla vista per quasi una settimana in un negozio che vendeva cibo per animali, chiusa in una gabbietta adatta forse a un coniglietto d'angora, dove non riusciva neanche a stare in piedi.

Con l'arrivo di Pilar, diventata poi il folle amore del consorte, finalmente raggiungemmo l'equilibrio perfetto. Infatti se Suerte - languida e meditabonda, schiava della sindrome abbandonica e poco incline ai giochi - mal aveva tollerato l'arrivo di Fidel - scatenato, incline alla fuga, socievole, giocherellone -, Pilar trovò in lui il compagno ideale. I due scherzavano, si rincorrevano, si contendevano i giocattoli, e finalmente la tristanzuola Suerte veniva lasciata in pace, libera di struggersi in solitudine.

Nonostante i nostri amici con figli, che tanto tempo dedicano a educarli, nutrirli e intrattenerli, spesso si stupiscano di quanta dedizione e quanta pazienza richieda la cura dei nostri tre cani e si domandino chi mai ce l'abbia fatto fare, io - noi - non mi sono mai pentita di averli accolti. Non ho problemi ad ammettere di provare nei confronti degli animali una tenerezza che non ho mai provato nei confronti degli esseri umani.

E poi, volendo buttarla sullo scherzo (ma in fondo neanche tanto), a differenza dei figli i cani non ti danno rispostacce, non vogliono il motorino, non si drogano, non eccedono con l'alcol, non finiscono in brutti giri e, soprattutto, ti amano di un amore incondizionato che mai verrà messo in discussione.

Vi sembra poco?



SPAGHETTI WITH MEATBALLS
(per due persone a da mangiare rigorosamente nello stesso piatto)

200 g di manzo macinato
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
1 uovo
1 pugnetto di mollica di pane bagnata nel latte e strizzata
140 g di concentrato di pomodoro
160 g di spaghetti
un bel po' di basilico (e guai a chi parla di stagionalità, ho la piantina viva e vegeta sul davanzale!)
sale, pepe, una zolletta di zucchero, olio EVO

Lo so, avete ragione, questa è una ricetta raccapricciante per chiunque abbia un po' d'amore per la cucina italiana. Se ripenso alle scenate che, in Big Night, Primo fa ai clienti del suo ristorante italiano ogni volta che gli chiedono questo piatto, quasi mi vergogno di averlo preparato.

A mia discolpa, posso dire di non aver mai neanche letto la ricetta degli spaghetti with meatballs e di essermi invece limitata ad assecondare i desideri del consorte che, ogni volta che preparo le polpette cotte nel sugo, sostiene che la salsa sia talmente deliziosa da essere sprecata per azzupparci semplicemente il pane e che sarebbe meraviglioso condirci la pasta.

Inoltre in questo post si parla di cani, e non è molto più romantico pensarli intenti a mangiare un bel piatto di spaghetti come in Lilli e il Vagabondo (soprattuto considerando che Pilar e Fidel li ricordano un bel po') piuttosto che proporre l'ennesima ricetta di biscotti per cani?

Bene, ora che mi sento assolta, procediamo! Sistemate in una ciotola la carne, la mollica di pane, il parmigiano e l'uovo. Condite con sale e pepe, aggiungete le foglie di basilico spezzettate e impastate per bene e a lungo, fin quando tutti gli ingredienti saranno amalgamati.


Formate quindi delle polpette della grandezza di una pallina da golf (se non giocate a golf andatevene per un'idea, come d'altronde faccio io), e rosolatele in un tegame capiente con due o tre cucchiai d'olio.


Quando saranno ben dorate, spostatele in un piatto e versate nel tegame il concentrato di pomodoro che stempererete con abbondante acqua calda (almeno mezzo litro). Aggiungete qualche foglia di basilico, un po' di sale, una zolletta di zucchero e immergetevi le polpette.


Fate cuocere a fuoco bassissimo e a lungo. La salsa deve peppiare - cioè brontolare, sobollire appena - fin quando non si sarà ridotta della metà.


A questo punto lessate gli spaghetti, mantecateli bene con la salsa, aggiungete un paio di polpette a persona, condite con un po' di parmigiano grattugiato e servite.


Gustateli a lume di candela e se volete qualcuno che vi canti "Dolce sognar"... beh, fatemi uno squillo!

venerdì 13 gennaio 2012

Il delitto è servito


Mostrando fin da bambina la mia natura a dir poco originale, a dieci anni inaugurai la stagione degli amori impossibili facendomi venire il batticuore per Jim Hutton. Per tutta la settimana aspettavo trepidante che arrivasse il mercoledì sera e allora non ce n'era per nessuno, il monopolio della tv era mio e l'unico programma che fosse consentito guardare (non che all'epoca ci fosse tutta questa scelta) era Ellery Queen

Adoravo quello scrittore di gialli deliziosamente distratto e trasandato, ma imbattibile quando c'era da risolvere un caso, che nonostante fosse già bello cresciutello viveva con suo padre, ispettore di polizia, nella New York degli anni '40. Le donne impazzivano per quel suo sembrare sempre fra le nuvole, per le sue giacche di tweed sempre un po' stazzonate, per il suo essere cronicamente disordinato, e io - bambina ingenua che ancora nulla sapeva di quali uomini sarebbe stato meglio evitare - mi struggevo dal desiderio di trovare, una volta diventata grande, un fidanzato che avesse lo stesso fascino un po' délabré del mio amato Ellery.

Immagino sia stato a causa poi di una specie di imprinting distorto che, traumatizzata dalla notizia che proprio mentre io fantasticavo su di lui il povero Jim Hutton era bello che morto, trasferii l'amore che provavo per Ellery alla più generica categoria degli investigatori.

Passando dalla tv ai libri, trascorsi un'estate piovosa che annoiò a morte mio fratello e i miei cugini, divertendomi moltissimo a leggere tutti i romanzi di Agatha Christie che avevano come protagonista Hercule Poirot. Andavo in visibilio per i suoi baffetti, la sua testa a forma d'uovo, le sue tisane, le sue celluline grigie e soprattutto il suo fare snob di belga che odia essere scambiato per francese e guarda alla cucina inglese con sano scetticismo.

A questi due primi amori in seguito, nel tempo, se ne sono aggiunti tanti: Sherlock Holmes, Maigret, Nero Wolfe, Philip Marlowe, Pepe Carvalho, Grazia Negro, Kay Scarpetta, Jean-Baptiste Adamsberg, Precius Ramotswe, Kurt Wallander, Petra Delicado, Lincoln Rhyme, l'avvocato Guerrieri, solo per citarne alcuni.

L'ultimo arrivato - ma soltanto in ordine cronologico - è Yashim l'eunuco, nato dalla fantastica penna di Jason Goodwin, uno storico inglese che, prima di darsi ai gialli, ha scritto una storia del tè (c'è da adorarlo solo per questo), un resoconto del suo viaggio a piedi verso il Corno d'Oro, e una storia dell'impero bizantino.

I motivi per amare i romanzi di cui Yashim è protagonista sono molti, a partire dall'ambientazione. Yashim compie infatti le sue gesta nella Istanbul della prima metà dell'ottocento, metropoli cosmopolita per eccellenza ma capitale di un impero già inesorabilmente al tramonto.

Yashim ne è consapevole e si strugge in silenzio opponendo però una tenace resistenza ai cambiamenti che la modernità impone - è l'epoca in cui il turbante ha lasciato il posto al fez, la tunica alla marsina e le babucce a calze di lana e stivaletti allacciati - ben sapendo che nel mondo che si affaccia all'orizzonte non ci sarà più posto per lui, eunuco di corte a cui il Pascià ha consentito di vivere al di fuori delle mura dell'harem.

Yashim è talmente discreto da passare inosservato, è perspicace, agile, persuasivo, cauto. Ama la letteratura francese - nel primo libro che lo vede protagonista, L'albero dei giannizzeri, è introdotto al lettore mentre è immerso a tal punto nella lettura di Le relazioni pericolose da conversare idealmente con la marchesa di Merteuil -, conosce e parla correntemente un bel po' di lingue straniere, adora cucinare (come del resto molti suoi colleghi detective).

Così come Poirot si accompagna ad Hastings, Sherlock Holmes a Watson, Nero Wolfe a Archie Goodwin (nomen omen!), Kay Scarpetta a Marino e via dicendo, anche Yashim ha un fedele compagno di avventure in Stanislaw Palewski, ambasciatore imperiale polacco presso la Sublime Porta. 

Se il mondo di Yashim volge al tramonto, quello di Palewski è bello che estinto e forse è proprio per questo che i due formano una coppia perfetta. La Polonia infatti non esiste più, cancellata dalla carta geografica per opera di Russi, Prussiani e Austriaci, e a Palewski gli ottomani concedono di mantenere il titolo di ambasciatore, la residenza e versano perfino un piccolo stipendio solo perché la magnanimità verso l'antico nemico è indice della grandezza di un impero.

Palewski, dignitosissimo nella sua redingote lisa il cui nero ha ormai da tempo smesso di splendere assumendo una sfumatura verdastra, passa le giornate traducendo opere letterarie che mai verranno pubblicate e dando fondo alla scorta di liquori dell'ambasciata, accampato nell'unica stanza della magione che sia ancora abitabile. Coltissimo, e per questo spesso consultato, è stralunato e languido per quanto Yashim è attento e pratico.

Ma entrambi, seppur così diversi, contemplando la riva di Pera, dove un tempo sorgeva un grande platano sdradicato per costruire il ponte che unirà la parte asiatica e antica della città a quella internazionale, moderna e commerciale, soffrono con la stessa intensità per l'inesorabile avanzare del brutto a spazzare via tanta bellezza dalle loro vite.

Jason Goodwin
L'albero dei giannizzeri
Il serpente di pietra
Il ritratto Bellini
L'occhio del diavolo
Einaudi


RISO ALLA GRECA
Per una quindicina di persone

3 zucchine
3 melanzane
3 peperoni
3 cipolle
3 pugnetti di uva passa
1 kg di riso
olio di semi di arachide
sale

Ora, direte voi, cosa c'entra il riso alla greca con una serie di romanzi ambientati a Istanbul? Niente. Forse sarebbe stato più semplice scopiazzare una delle tante ricette - peraltro dettagliatissime - cucinate da Yashim ma, se come spero leggerete i libri, a quello ci penserete voi.

Semplicemente il riso alla greca è quanto di più esotico si sia mai cucinato a casa di mia madre, e tanto basta. La sua origine poi, a volerla dire tutta, non è neanche veramente greca ma squisitamente napoletana dato che questa ricetta - come quella del polpettone svedese - è stata inventata da tale Mario, geniale cuoco del circolo del bridge di Napoli negli anni '80, che per rendere i propri piatti intriganti, attribuiva loro natali stranieri.


Preparare questa ricetta incantevole che, garantisco, conquista il palato di chiunque l'assaggi, è semplice quanto noioso perfino per chi, come me, adora armeggiare con i coltelli. Gran parte del lavoro consiste infatti nel tagliare in cubetti piccolissimi (non dico a brunoise ma quasi, mi terrei sugli 8 mm di lato) le zucchine, le melenzane, i peperoni e le cipolle.





A questo punto si riempie d'olio di arachidi una padella bella capiente e si friggono prima le zucchine...


poi le melanzane seguite dai peperoni...


quindi le cipolle...


e infine l'uva passa che deve giusto gonfiarsi.


Man mano che le verdure si saranno dorate, dovrete scolarle per bene (ma non asciugarle sulla carta assorbente poiché parte dell'olio di cottura dovrà condire il riso), disporle in una grande ciotola, salarle e mescolarle con cura.

A questo punto la scelta sul riso sta a voi. La ricetta originale prevede un riso pilaf (unico richiamo alla cultura turca!) preparato facendo tostare il riso in un soffritto di cipolla, aggiungendo brodo vegetale già al punto di bollore per il doppo del peso del riso, e facendolo cuocere coperto in forno a 200° per una ventina di minuti. Io però confesso che da un po' di anni accorcio i tempi e - orrore! - mi limito a lessare del banale riso da insalate, ottenendo comunque un risultato eccellente. 

Una volta preparato il riso, versatelo nella ciotola delle verdure e mescolate a lungo in modo che il riso risulti uniformemente condito. Si consuma a temperatura ambiente, preferibilmente il giorno dopo.


Cimentatevi magari con quantità più esigue, e vedrete che non ve ne pentirete.