giovedì 20 dicembre 2012

Maya e poi Maya

Piccola dichiarazione d'intenti per l'anno a venire, nel caso la profezia non s'avveri


Confesso che i bilanci di fine anno e i propositi per quello nuovo mi hanno sempre messa a disagio. Nel farli ho spesso provato lo stesso misto di inadeguatezza/speranza/senso di colpa/desiderio di rivalsa che mi sopraffaceva tutte le volte che andavo a controllo dal dietologo e, spogliata perfino degli orecchini pur di non peggiorare ulteriormente la situazione, mi accingevo a salire sulla mia rivale di sempre: la pesapersone.

Non credo di essere l'unica, in questi frangenti, a guardare al passato con un occhio assai poco indulgente e ad auspicare a un futuro più virtuoso fissando una serie di obiettivi talmente rigorosi da essere irrimediabilmente destinati a fallire, in una sorta di profezia che si auto determina.

Mmm... nell'arco dell'anno prossimo voglio perdere 50 chili (4 chili al mese mi sembrano un obiettivo ragionevole, sì sì... 4 per 12 fa 48... magari con un po' di esercizio fisico i 50 li portiamo a casa)... voglio mettere da parte un tot al mese per iscrivermi di nuovo all'università e finalmente laurearmi (in fondo soffro d'insonnia, no? Invece di smanettare come un'idiota su facebook potrei mettermi a studiare... forse sarebbe perfino rilassante... beh, speriamo non troppo... non vorrei che mi venisse il sonno!)... voglio finalmente mettere a punto un sistema per la gestione della casa che mi consenta di non dover passare tutti i santi week-end a fare le grandi pulizie (basterebbe che mi svegliassi mezz'ora prima la mattina... che ci vuole... un giorno vado di aspirapolvere, un giorno vado di mocho, un altro lavo i vetri... alla fine si trasformerà in un gioco da ragazzi!).

Bene, d'ora in poi si cambia musica. L'anno prossimo - sempre Maya permettendo - cercherò di mettere a tacere il senso del dovere e penserò a fare solo ciò che effettivamente mi procura piacere, è questo il mio unico proposito.

Per prima cosa bandirò dalla mia vita il parrucchiere. Voglio che i miei capelli crescano liberi e ribelli, voglio che si riempiano di doppie punte. Voglio che mi avviluppino le spalle, che mi trasformino in una pitonessa. Voglio che fra le loro ciocche si perdano i fermagli e le matite, voglio che tornino alla loro antica natura preraffaellita.

Voglio leggere senza essere interrotta, staccando il telefono, spegnendo la radio. Voglio leggere acciambellata sul divano, stesa a pancia in giù sul letto sporgendomi quanto basta per voltare le pagine del libro poggiato sul pavimento. Voglio leggere fino a perdermi, fino a dimenticare che il sole tramonta, fermandomi solo quando le parole impresse sulla carta diventano segni indistinti.

Voglio cantare come quando ero ragazza e ogni luogo che avesse una bella acustica mi spingeva a intonare una melodia. Voglio cantare nella tromba delle scale, voglio cantare con le labbra a pochi centimetri dalle mattonelle della cabina doccia, voglio cantare nel tempio di Mercurio a Baia, nella grotta del giardino segreto a Palazzo Te.

Voglio di nuovo la mia Renault 4. Voglio montare in auto e andare, con quello stesso brivido che a diciotto anni mi faceva pensare di essere libera, di poter raggiungere la mia meta, ma anche di poter proseguire il cammino su strade ignote fin quando avessi avuto abbastanza benzina.

Voglio il fornello acceso e la porta di casa sempre aperta agli amici. Voglio cene squisite e vino buono, musica a basso volume e chiacchiere fino a notte fonda, poco importa se il giorno dopo bisogna alzarsi presto per andare a lavorare.

Voglio pensare al futuro come lo pensavo anni fa, quando sembrava che la vita fosse ancora tutta da venire. Voglio fare progetti folli, voglio rischiare, voglio smettere di essere cauta.

Voglio ridere.

E voglio un anno strepitoso.


ZUPPETTA DI FAGIOLI E SCAROLE
per due persone

2 cespi di scarola liscia
500 g di fagioli cannellini lessati
1 spicchio d'aglio
4 cucchiai d'olio
sale

Voglio mangiare almeno una volta alla settimana una cosa che mi piaccia, senza preoccuparmi del fatto che mi faccia male. Ecco, questa è l'ultima cosa che mi ripropongo per l'anno nuovo. L'avete letto, i miei desideri sono semplici e semplice è anche questa ricetta, che tuttavia per la mia colecisti imbizzarrita rappresenta una bella sfida.

Lavate a lungo la scarola, o almeno lavatela fin quando non sarete certi di aver eliminato tutto il terreno. Private quindi i cespi delle foglie esterne, più verdi e coriacee e - usando esclusivamente le mani - spezzate le foglie chiare in due o tre pezzi. Mettete quindi la scarola, ancora ben umida, in una pentola che la contenga, aggiungete il sale, chiudete con il coperchio e lasciatela cuocere a fuoco dolce avendo cura di girarla di tanto in tanto. Quando la scarola avrà tirato fuori l'acqua di vegetazione e si sarà ammorbidita, aggiungete lo spicchio d'aglio, l'olio, i fagioli lessati e - se necessario - un paio di mestoli della loro acqua di cottura. Lasciate cuocere ancora per una ventina di minuti quindi servite la zuppa accompagnata da una bella fetta di pane per ogni commensale.

Sono stata una bambina strana. Alle feste dei miei compagni di classe venivo presa dal panico quando le mamme mi propinavano polpettone e patate fritte, che odiavo. Ma quando a casa della nonna venivo accolta dal profumo di fagioli e scarole, sentivo che tutto sarebbe andato a posto.

Ne sono sicura, tutto andrà a posto.

martedì 4 dicembre 2012

Un uovo di crema


Mio nonno era stato un bambino grasso. Con lui il codice genetico non era stato molto generoso e invece di far prevalere le peculiarità del ramo danese della famiglia - occhi chiari, capelli biondi, figura snella e slanciata - che erano appannaggio esclusivo di sua sorella Camilla, gli aveva riservato tutte le caratteristiche fisiche del ramo partenopeo. 

Il nonno, che pure era un bell'uomo il cui fascino era accresciuto da un'intelligenza smagliante e un senso dell'umorismo fuori dal comune, aveva occhi e capelli scuri, statura modesta e una decisa tendenza alla pinguedine.

Non appena si affacciò all'età puberale dimagrire divenne la sua ossessione. Modellò il suo corpo con il canottaggio, la corsa ed estenuanti serie di addominali. Mentre i suoi coetanei entravano in quella fase della vita in cui sembra nulla possa saziarli, lui si dedicava al digiuno con rigore ascetico, e quella disciplina finì col diventare così radicata che mai, per il resto della vita, il nonno commise un passo falso.

Ricordo ancora i suoi pranzi a base di un singolo uovo alla coque e di un frutto, le cene con un po' di verdura bollita e qualche fettina di prosciutto crudo, le colazioni inesistenti che cominciavano con il caffè e lì terminavano.

L'unica cosa che si concedeva, una sola volta all'anno, era una scatola da un chilo di nudi di Gay Odin. Se la faceva regalare dalla nonna a Natale, immancabile fra gli altri doni, e la riponeva nel proprio armadio, poggiata sul ripiano della cassettiera accanto alla spazzola per gli abiti e la bottiglia di colonia English Lavender della Aktinsons.

I cioccolatini del nonno erano sacri, nessuno doveva toccarli. Lui ne gustava un paio con studiata lentezza quando si svegliava dal riposino pomeridiano, accompagnandoli al caffè, come giusto incentivo per riprendere la giornata di lavoro allo studio. La scatola di nudi durava un mese o poco più, dopodiché ricominciava l'astinenza.

Ma c'erano sempre, durante i restanti undici mesi, dei languori improvvisi. A volte il nonno veniva preso da una specie di smania, da un'irrequietezza che non si placava da sola e che in qualche modo bisognava domare. 

Era allora che con quel tono gentile ma fermo che gli permetteva di non essere mai contraddetto, chiedeva alla nonna di preparargli l'unico balsamo che osasse concedersi per appagare la gola, ma soprattutto addomesticare il cuore: un uovo di crema.


CREMA GIALLA DELLA NONNA
Per una bella ciotolina che porti via la tristezza

1 tuorlo di un uovo categoria A
1 bel cucchiaio di zucchero
1 bel cucchiaio di farina
250 g di latte intero
la scorza di mezzo limone

Tanto vale dirlo subito: questa crema sfugge a tutte le regole e a tutte le dosi e guai a usarla per farcire un dolce. A volerle trovare un uso che non si riveli improprio, la destinerei a interpretare il non facile ruolo di panacea contro ogni male. 

Il conforto di questa crema dal sapore senza tempo è immediato quanto totale. Che sia mangiata calda, tiepida o fredda (cosa che per altro non accade mai, se si viene presi dalla smania delle coccole non è che poi si possa procrastinare a lungo), nel cuore dell'inverno o nella torrida estate, al mattino o al calar delle tenebre, il suo effetto placante è una certezza.

Ricordo benissimo la nonna in piedi accanto al fornello, ricordo perfino il vecchio pentolino che usava per prepararla, cosa fra l'altro di una semplicità estrema.

Si scalda il latte con le scorze di limone fino a portarlo quasi a bollore. Intanto in una ciotola si montano con una frusta il tuorlo e lo zucchero. Quando il composto sarà diventato chiaro e spumoso, vi si aggiunge la farina e infine il latte caldo a filo, avendo cura di mescolare bene con la frusta per evitare che si formino dei grumi.

Si versa quindi nuovamente il tutto nel pentolino e, sempre girando con la frusta, si porta la crema a ebollizione. Non appena la vedete sbuffare dal fondo, spegnete e versate la crema in una ciotolina.

Se volete guarnite con delle amarene, con delle fragole o delle pesche.
Ma vi assicuro che va benissimo anche senza.


Chiudo gli occhi, porto il cucchiaino alle labbra, e torno bambina.

mercoledì 14 novembre 2012

C'è tutto un mondo intorno


A ben pensarci io e il consorte non avremmo potuto abitare da nessun'altra parte, una famiglia ridicola come la nostra non poteva prendere casa che qui, nell'angolo di Napoli meno classificabile che io conosca.

Abitiamo a via Tasso, una strada che s'inerpica verso la collina del Vomero, nella casa dove visse per vent'anni Vincenzo Gemito nell'esilio della propria follia ("E tu farai la stessa fine, Bene" - profetizza il consorte).

Si tratta di un palazzetto a due piani, costruito alla fine dell'800 e appartenente da sempre alla stessa famiglia, incuneato fra Salita Tasso - una delle tante scalinate di Napoli che collega la strada in cui abitiamo al Corso Vittorio Emanuele - e un vallone verde che quando ero piccola veniva amorevolmente coltivato da Ciauriello, il contadino che forniva verdure fresche a molte famiglie di via Tasso e del Corso.

Il nostro è un palazzo a spuntatora, cioè ha un doppio ingresso: uno nobile con tanto di stemma alla sommità del portone su via Tasso, e uno secondario, di servizio, che dà su un cortile - che poi affaccia su salita Tasso - che condividiamo con un altro palazzo, d'impianto popolare.

La rivalità fra i signorotti proprietari del mio palazzo e gli abitanti del palazzo accanto dura da più di cento anni, esasperata dalla forzata promiscuità, e nulla è cambiato neanche adesso che il proprietario ha venduto e solo alcuni dei vecchi inquilini hanno comprato mentre le altre case sono state acquistate da giovani professionisti.

Nel palazzo accanto si continua a fare molta vita di cortile, come usava quando ero piccola io. Le donne che abitano al pianterreno sostano a chiacchierare quando stendono il bucato, si salutano rispettivamente dagli usci aperti quando tornano dalla spesa e d'estate, quando il caldo diventa davvero soffocante, trasferiscono tavoli e sedie all'aperto per cenare al fresco.

A partire da fine maggio per noi è impossibile tenere le finestre aperte dal lato del cortile tanto è il frastuono che arriva da lì e dalle finestre delle altre case. Ed è allora che gli abitanti del palazzo, che per certi versi sembrano usciti dalle le pagine di La vita istruzioni per l'uso, danno il meglio di sé.

C'è il cantante lirico - che non ho ancora capito in quale appartamento abiti e in sei anni non ho mai incontrato di persona - che gorgheggia con voluttà romanze pucciniane, il che sarebbe godibilissimo se la sua voce non fosse sovrastata dall'abbaiare del cane dei giovani virgulti della Napoli bene - due ragazzetti talmente insopportabili che i genitori hanno preferito affittar loro un appartamento pur di levarseli dai piedi - che, povera bestiola, immagino vorrebbe tanto liberarsi a propria volta dei suddetti ragazzetti e tornare invece dai loro genitori.

A fare da contrappunto al simpatico duetto tenore/cane, c'è la figlia duenne della mia dirimpettaia che piange, anzi urla, ininterrottamente da quando è venuta al mondo. Io e il consorte all'inizio ci siamo inteneriti, poi preoccupati e infine esasperati al punto da aver ribattezzato la creatura Damien, perché c'è sicuramente qualcosa di diabolico in lei. Mentre provo per la sua mamma un'ammirazione sconfinata perché mai, neanche una volta, le ho sentito perdere la pazienza, non riesco più ad avere in simpatia la pargola, che al momento ha l'unico merito di aver addolcito il mio rimpianto di non avere avuto bambini.

Dato che non ci facciamo mancare nulla, ogni settimana veniamo poi allietati dalla nipote della signora Antonietta, una delle maggiori animatrici del cortile, che non rinuncia al sogno di partecipare ad Amici o X Factor e sceglie - chi sa mai per quale motivo - proprio il momento della visita settimanale alla nonna per esercitarsi a cantare a squarciagola, e stonando moltissimo, tutto il repertorio di Alicia Keys.

Domina su tutti la vedova ottuagenaria di uno dei due fratelli proprietari del mio palazzetto. Armata di una campanella che scuote in media ogni sette minuti, richiama all'ordine la mansueta domestica cingalese terrorizzandola al punto che la poverina è ormai un giunco tremante.

La signora, che sfoggia un'acconciatura degna di Madame Tremend, fuma affacciata al balcone con l'aria arcigna e l'accanimento di chi sa che ormai non ha più nulla da perdere, ma quando per strada scorge il mio consorte che si dirige verso casa, si rianima di colpo. Si aggiusta i capelli con movenze da giovane donna degli anni '50, e lo prega di fare per lei qualche piccola commissione - in genere comprarle le sigarette - solo per avere poi il piacere di ricambiare la cortesia invitandolo a casa propria a bere un Rosso Antico, compiacendosi che esistano ancora gentiluomini come lui.

Ma il nostro palazzo ospita solo una piccola parte degli strani personaggi che popolano via Tasso, e di questi ce ne sono quattro che meritano almeno una menzione.

C'è il professore - di cosa non so - di chiare origini calabre che ce l'ha con me perché scrivo per una soap opera che, e qui cito, dà un'immagine ripugnante del sesso e della donna.

Il professore, che ho il piacere di incontrare spesso dal fruttivendolo finendo col trasformare il suo negozio nel set di un talk show, dichiara che la soap opera in questione dovrebbe essere cancellata dalla RAI, quindi allude a conoscenze nelle alte sfere sulle quali esercitare pressioni a riguardo.

S'innervosisce quando io mi lascio sfuggire un sorriso e mi consiglia di cominciare fin da subito a cercare un altro lavoro, perché gli è chiaro che io il mio non sappia farlo. Se poi mi azzardo a fargli notare che se la già citata soap opera gli ripugna tanto la cosa migliore da fare è evitare di guardarla, diventa paonazzo dalla rabbia e rivendica il suo diritto di libero cittadino di guardare ciò che gli pare e piace.

Insomma, nulla serve a smussare il suo astio e se ci incrociamo per strada, magari anche su marciapiedi opposti, non perde mai l'occasione di redarguirmi con un severo: "Pervertita, si vergogni!".

Lungo la strada, un po' più giù di casa mia, c'è il negozio di Carmine, il barbiere. Evidentemente il poveretto avrebbe voluto vivere in Tirolo perché il suo negozio è il trionfo del perlinato in legno d'abete, o in una giungla, visto che per raggiungere le poltrone bisogna farsi largo a colpi di machete fra i rigogliosissimi pothos che coltiva con amore.

Cosa abbia spinto Carmine ad aprire una bottega di barbiere ancora non l'ho capito dato che la maggior parte delle sue entrate proviene invece dal lavoro di sarto, che svolge rannicchiato sulla poltrona da barbiere quando c'è da imbastire, o seduto a una macchina per cucire incastrata fra i lavatesta quando c'è da ultimare l'opera.

L'unico che si ostina a considerare Carmine un barbiere - "Bene, ma sull'insegna c'è o non c'è scritto così?" - è il consorte che, distogliendolo dal suo certosino lavoro di ago e filo, va di tanto in tanto a farsi rimodellare la barba, immagino solo per il gusto di riportare le cose al loro ordine naturale.

In un basso situato più o meno a metà delle scale della salita Tasso, abita poi il musicista che - sprezzante del pleonasmo - suona appunto il basso.

Mi duole ammetterlo, ma di tutto il vicinato il musicista è l'uomo che il consorte ammira di più. Questo trentenne un po' maledetto, di una bellezza appena sciupata da una vita di eccessi, si sveglia all'alba delle due del pomeriggio quando la madre va a portargli il pranzo, prosegue la giornata esercitandosi un po' a ripetere la stessa esasperante, alienante, angosciante linea di basso per un paio d'ore, quindi verso le dieci di sera, custodia del Fender a tracolla, monta su una magnifica Vespa d'epoca e va a esibirsi con il suo gruppo.

Il musicista non si ritira mai prima delle tre del mattino e non lo fa mai da solo. Tutte le sere, inevitabilmente, una fanciulla un po' alticcia lo segue barcollando lungo le scale e sostando - ma guarda caso! - sotto la finestra della camera da letto mia e del consorte, in preda a un subitaneo ripensamento. Comincia quindi un serrato tira e molla che può essere romantico, sanguigno, rabbioso o svogliato, a seconda di quanto avvenente sia la fanciulla o di quanto abbia bevuto il musicista.

D'estate tutto questo teatrino finisce sempre con lo svegliarmi. Apro un occhio per controllare l'ora e biascico insulti contro l'importuno riproponendomi di alzarmi, aprire le persiane e fargli una bella imparata di creanza, ma a questo punto interviene il consorte, che mi invita all'indulgenza:  "Bene, e fallo campa'... beato a lui!".

Ma di tutti il mio preferito è Maurizio.

Reuccio incontrastato del tratto di via Tasso che va da parco Ameno a parco Elena, Maurizio passa le sue giornate e gran parte delle sue notti in strada. È di età indefinibile, ha la pancia tonda, la testa tonda, le labbra carnose sempre un po' aperte come se fosse in preda a un perenne stupore, e un'andatura indolente, un po' da papera, che mi fa pensare a Ignatius Jacques Reilly, il protagonista di Una banda di idioti.

Ha la pelle scura - non so se a causa del sole di tante estati o del fatto che non sembra essere molto amico dell'acqua - e due sole tipologie di vestiario: maglietta, bermuda e infradito quando è estate oppure maglione, jeans e infradito quando è inverno.

Maurizio comunica in una lingua incomprensibile che del napoletano ha solo la cadenza. Emette suoni gutturali con un tono brusco che induce inevitabilmente a pensare che ce l'abbia con te, e credo che il consorte sia l'unico a non esserne intimorito e a riuscire a intrattenere con lui una conversazione di qualche minuto.

Ha un amore sconsiderato per oggetti di uso comune che rubacchia in giro o recupera nella spazzatura: dalla cinta pendono più chiavi di quante ne potrebbe avere San Pietro, dalle tasche spuntano appena buste, giraviti, una paletta per raccogliere gli escrementi del cane che non ha e forse vorrebbe avere.

Ultimamente ha reperito due nuovi gadget: un gilet catarifrangente di quelli che bisogna tenere per legge in auto, e una torcia da testa che però non funziona. Orgoglioso come se il solo possederli gli conferisse nuova autorità, se ne va in giro mettendosi carponi ogni venti metri per scrutare, nell'oscurità prodotta dalla torcia fulminata, sotto le auto parcheggiate e scoprire cosa vi si nasconda.

Maurizio è l'unico a inoltrarsi in quella selva oscura che è diventata ormai la terra di Ciauriello. C'è chi pensa che vada a espletare lì le proprie funzioni corporali, chi pensa che vada a farsi la pennica sotto gli alberi quando fa caldo, e chi pensa che vada a tirare sassi ai gatti.

Ma io invece so, perché l'ho visto, che Maurizio va a coltivare la terra, così come faceva Ciauriello. Lo fa in modo improbabile e saltuario, ma qualcosa riesce a produrre. Una volta che, venendo fuori dalla lamiera contorta che fungeva da recinzione, mi si trovò davanti, fu preso talmente alla sprovvista che si sentì in dovere di dare una spiegazione e, aprendo appena la busta di plastica che aveva con sé, mi mostrò il frutto del suo lavoro, pronunciando l'unica frase di senso compiuto che io gli abbia sentito dire fino a oggi.

UANEMA I CHE PATANE!


VELLUTATA DI BROCCOLO BARESE, PATATE E GORGONZOLA
Per 4 persone

500 g di broccoli baresi
4 patate di medie dimensioni
1 cipolla grande
2 cucchiai di olio EVO
sale e pepe
200 g di gorgonzola piccante

Come direbbe mia nonna: "E questa è la zuppa!" nel senso che, mi piaccia o meno, il vicinato questo è e certo non lo posso cambiare, perciò tanto vale che me lo faccia piacere. Perfetto corollario a questo post è quindi questa vellutata che mentre cuoce fa tanto odore di casa del custode, oppure di casa di Giuseppe Lo Turco - che a broccoletti e patate era suo malgrado avvezzo -, ma che una volta pronta è uno di quei piatti che hanno il meraviglioso potere di farmi riconciliare con il mondo.

Procedete così: affettate la cipolla e fatela appassire nell'olio, aggiungete quindi i broccoli e fateli insaporire leggermente, unite poi le patate a tocchetti, salate, pepate e coprite a filo con dell'acqua fredda. Lasciate cuocere fin quando le verdure non saranno ben morbide quindi frullate tutto con il minipimer. Fate sciogliere nella crema calda la metà del gorgonzola e usate invece il restante tagliato a tocchetti per guarnire i piatti.


giovedì 11 ottobre 2012

Big Girls WANT Cry


Non so voi, ma io non vorrei tornare ad avere vent'anni neanche se mi pagassero. 

Se l'adolescenza è l'età delle certezze assolute, dell'idealismo, della ribellione e della scoperta di sé, credo che gli anni a seguire, quelli che vanno dai venti ai venticinque/ventisei, siano invece quelli dello sconforto.

La strada di colpo non è più segnata, gli studi sono finiti e la voglia di sentirsi adulti e indipendenti è talmente forte da fare male. Eppure tutto sembra immobile, il futuro appare ancora lontanissimo da venire. 

Queste considerazioni, e molte altre ancora, mi sono sorte spontanee quando, qualche mese fa, la HBO (sempre lei) ha messo in onda Girls, serial ambientato a New York che narra delle peripezie, amorose e non, di quattro amiche tanto legate l'una all'altra quanto diverse fra loro. Per caso vi ricorda qualcosa?

Protagonista della serie è Hannah, interpretata da Lena Dunham che, oltre a recitarvi, ha creato, sceneggiato, diretto e prodotto Girls. Ma se qualsiasi fanciulla che si aggirasse intorno ai trent'anni alla fine del secolo scorso ha desiderato almeno una volta essere Carrie Bradshaw, dubito seriamente esista al mondo anche una sola venticinquenne che desideri essere Hannah Horvath.

Hannah è una ragazza bruttina con qualche chilo di troppo, che ha le spalle perennemente curve, cammina con i piedi a papera, mangia di continuo - soprattutto gelati - e in modo ripugnante, tenendo la bocca aperta, e sembra scegliere con cura qualsiasi capo di abbigliamento possa mortificare ulteriormente un fisico non felice.

Vive a New York, mantenuta dai genitori, in attesa che decolli la sua sfolgorante carriera di scrittrice. Ah bene, penserete, Hannah non è esteticamente gradevole ma compensa con talento e intelligenza! Peccato che Hannah non scriva null'altro che il proprio diario, che tiene sul comodino, e del suo lavoro di scrittrice non faccia che parlare, come se bastasse fare quello per dare concretezza ai suoi progetti.

Insomma Hannah è uno strano miscuglio di egocentrismo e complesso di inferiorità, è fragile e al tempo stesso crudele.

Le sue compagne di viaggio, la coinquilina Marnie, Shoshanna e la sua snobissima cugina inglese, Jessa, non hanno invece la forza per essere delle vere comprimarie.

La rigida Marnie, che ha pianificato la propria vita al punto che pur non amando più il fidanzato storico non lo lascia per non sconvolgere i propri programmi, Shoshanna, che sebbene viva in un finto mondo perfetto in cui si indossa sempre l'abito giusto per l'occasione giusta, ci si pettina e ci si trucca nel modo giusto, si parla e perfino si pensa nel modo giusto, non ha trovato nella sua infinita perfezione nessuno che si sia degnato di andare a letto con lei, Jessa, che invece ne ha trovati fin troppi, e ne parla svogliatamente mentre fuma una sigaretta e filosofeggia con aplomb da hipster, sono poco più che stereotipi.

Sono ragazze che sicuramente Lena Dunham ha incrociato e invidiato, oppure compatito o ancora deriso, ma che non si sforza di indagare più di tanto, limitandosi a restituirne un ritratto superficiale e un po' grottesco.

Quello che la Dunham fa, bisogna riconoscerlo, con una certa abilità, è in definitiva confondere le acque. Finge di parlare di una generazione per parlare in realtà di se stessa, con evidente intento catartico.

Infatti se Marnie, Shoshanna e Jessa sono finte, Hannah è invece dolorosamente vera. Il suo volersi male, il suo sentirsi inadeguata nei confronti di chiunque abbia più talento di lei ancor prima che nei confronti di chi sia esteticamente più gradevole, il suo cercare i consigli delle amiche per averne in realtà l'approvazione, il suo accettare qualsiasi compromesso sessuale pur di sentirsi voluta e amata, il suo terrorizzarsi quando poi invece amata lo è davvero, quasi sentisse di non meritarlo, sono sentimenti che molte di noi hanno provato.

Sicuramente li ho provati io, ed è per questo che - pur riconoscendo l'innegabile talento di Lena Dunham - ho guardato Girls con grande disagio.

I panni sporchi, se permettete, si lavano in famiglia.
O tutt'al più nello studio dello psicanalista.

Girls
dal 10 ottobre alle 23.10 su MTV
(scusate il ritardo, sarà stato un lapsus freudiano)


GELATO AL MIELE, LAVANDA E ROSMARINO

6 tuorli di uova categoria A
150 g di miele d'acacia
50 g di zucchero
300 g di latte intero
200 g di panna
1 rametto di rosmarino
1 cucchiaio e mezzo di fiori di lavanda
UNA GELATIERA

Avete letto bene, la gelatiera compare fra gli ingredienti perché, credetemi, se non l'avete è meglio che non vi mettiate proprio all'opera. Io, che ho visto tragicamente defungere la mia mentre stavo preparando il gelato, ci ho messo mezza giornata per portare a compimento quanto iniziato, e il risultato non è stato affatto soddisfacente come al solito.
Io vi ho avvisati...

Per preparare questo gelato aromatico ed evocativo (sempre ammesso che abbiate la gelatiera), dovete innanzitutto riscaldare il latte e la panna con il rosmarino e i fiori di lavanda fino a portarli a bollore.


Contemporaneamente, servendovi di una frusta elettrica (io l'ho fatto a mano perché quel giorno anche la mia frusta elettrica si è ammutinata, ma spero che voi siate più fortunati) montate i tuorli con lo zucchero e il miele fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.


 

Aggiungete quindi a filo il latte ancora caldo, dal quale avrete avuto cura di eliminare il rametto di rosmarino, e rimettete tutto sul fuoco, mescolando di continuo con una spatola in modo da descrivere un 8 nella pentola,  fin quando il composto non comincerà a velare la spatola, ma evitando che giunga ad ebollizione trasformandosi in una stracciatella.

Ciò fatto, lasciate raffreddare quindi spostate il composto nella gelatiera e fate andare secondo le istruzioni della macchina.


Sono sicura che se Hannah Horvath avesse mangiato questo gelato, invece di quello comprato al carretto sotto casa, si sarebbe ricordata di tenere la bocca chiusa.

giovedì 20 settembre 2012

Una nonna hollywoodiana



Faccio fatica a pensare che Carla Cletimeni sia stata mia nonna. Faccio fatica anche a pensare che sia stata la mamma di mio padre, perché lei - la nonna Carla - è stata soprattutto una donna. Anzi, la donna.

Si era sposata giovanissima, credo appena diciannovenne, e nella foto che la ritrae con mio nonno all'uscita della chiesa aveva i boccoli biondi e lo sguardo ingenuo e un po' stupito di una ragazzina che indossa per la prima volta abiti da donna. Ma quegli abiti evidentemente le piacquero non poco, perché qualche mese dopo era già diventata una dark lady capace di sedurre un uomo semplicemente chiedendogli di accenderle una sigaretta.

Nonna Carla era una donna simpatica e assetata di vita, che non si arrendeva davanti a nulla. Bruciò tutte le tappe: si sposò, mise al mondo due figli e si separò ancor prima di diventare maggiorenne. Si trovò un amante, poi un altro e poi un altro ancora mentre, parallelamente, portava avanti con grande successo la carriera di imprenditrice.

Andava in giro con due levrieri afgani, indossava sempre i guanti, amava i diamanti e fumava le sigarette con un lungo bocchino. Aveva un guardaroba da diva, una voce alla Marlene Dietrich e capelli biondo cenere che facevano pensare a Lauren Bacall, ma nella borsa, oltre alla cipria e al rossetto rosso, aveva sempre un romanzo e gli occhiali da lettura. 

Capitava a casa agli orari più impensati, sempre affamata e sempre di corsa. Divorava, con modi a dire il vero molto poco signorili, quantità inumane di cibo mentre con tono frivolo mi dispensava i suoi consigli di bellezza: "Tesoro, le gonne a campana sono passate di moda da almeno vent'anni. Strizza quel bel mandolino in un paio di jeans e vedrai quanti corteggiatori!". Avrei dovuto darle retta perché il mio mandolino si trasformò ben presto in un culone, ma capirete, a dodici anni l'ultima cosa che volevo era essere corteggiata!

Quando finalmente nel '74 ci fu il referendum sul divorzio, dopo più di trent'anni decise di mettere fine legalmente al matrimonio con mio nonno ma lui, dispettoso e cocciuto come pochi, pretese invece di avere l'annullamento, visto che l'aveva sposata minorenne e che quindi i presupposti c'erano.

Affrontare la trafila della Sacra Rota fu umiliante e doloroso, e per riprendersi dal trauma la nonna decise che forse era arrivato il momento di rimettere ordine nella propria vita. Lo fece, come sempre precorrendo i tempi, sposando in municipio, con una cerimonia semplice e discreta, un uomo che aveva quasi vent'anni meno di lei, anche se era talmente posato da sembrare a tutti l'anziano della coppia.

Se per certi versi il matrimonio le diede stabilità e sicurezza, per certi altri la fece sentire molto più fragile. Per lei che era stata una donna bellissima, confrontarsi con gli amici del marito e soprattutto con le loro mogli, tutte molto più giovani, divenne di colpo faticoso. Così, concedendosi l'ennesimo vezzo da star hollywoodiana, cominciò a togliersi gli anni. 

Iniziò col sostenere di essersi sposata a 18 anni, che poi scesero a 17, 16 e infine a 15. Quando capì di non poter retrodatare ulteriormente il proprio matrimonio, cominciò a diminuire le età dei figli. Proprio come accadeva al barone Lamberto, mio padre diventava di secondo in secondo più giovane e anche il suo matrimonio era avvenuto sempre prima. Poi, quando anche mio padre raggiunse l'età minima consentita dal buonsenso, la nonna cominciò a far ringiovanire me e mio fratello che, sebbene quasi ventenni, nei suoi racconti venivamo dipinti come lattanti. 

Se all'inizio le sue bugie risultavano credibili, con gli anni lo erano sempre meno. Lei però non si perse d'animo e, per rendere la sua età inconfutabile, denunciò lo smarrimento della patente ottenendone una nuova, per poi contraffare la vecchia - che non aveva affatto smarrito - modificandone la data di nascita con un'abilità da falsaria esperta che nessuno di noi avrebbe mai sospettato.

Nel 1990 la nonna Carla arricchì quella grande sceneggiatura che era stata la sua vita con un colpo di scena che rasentò il virtuosismo: venne a casa e ci annunciò che si sarebbe sposata di nuovo, sempre con suo marito, ma questa volta in chiesa, per festeggiare i 25 anni dell'unione civile. 

Se un quarto di secolo prima avevano fatto le cose in sordina, questa volta invece si sarebbero smodati. Lei si sarebbe sposata in avorio, con un tocco di fucsia giusto per non risultare ridicola, avrebbero dato un grande ricevimento e poi sarebbero andati in crociera. E io sarei stata la sua testimone.

Per rimettere in sesto le mie sinapsi dopo quel cortocircuito emotivo ci volle una settimana al termine della quale sopravvennero però nuove preoccupazioni. Come dovevo vestirmi per la cerimonia? Camicetta bianca, gonna a pieghe, calzettoni e un fiocco nei capelli? Scamiciatina scozzese con dolcevita in filanca e mocassini college? Insomma, come potevo far sì che l'opulenta ventenne che ormai ero diventata sembrasse una bimbetta delle elementari?

Alla fine scelsi un vestitino a fiori e un paio di ballerine, mi legai i capelli con una mezza coda ed evitai accuratamente qualsiasi tipo di cosmetico. Sorprendentemente - se si esclude una clamorosa gaffe del prete che chiese a mia nonna se fosse vedova e quando lei negò giunse all'avventata conclusione che mio padre fosse figlio illegittimo, facendolo diventare pazzo per la rabbia - in chiesa andò tutto bene. 

Fu quando arrivammo al Grand Hotel Parker's - appena riaperto dopo il restauro - per il ricevimento e scoprii che avremmo preso tutti posto attorno a un tavolo imperiale, che venni presa dal panico. 

Nonostante avessi cercato di sedermi accanto a mamma e papà, venni subito attorniata dalle amiche della nonna che mi costrinsero a sedere con loro, subissandomi di domande sempre più pressanti. Io cincischiavo, mi mantenevo sul vago, mangiavo a ripetizione per avere sempre la bocca piena ed evitare di parlare, ma per quanti espedienti trovassi, alla fine la domanda che più temevo arrivò lo stesso: "Cara, ma quanti anni hai?"

Deglutii imbarazzata poi, non sapendo cosa fare, mi voltai verso la nonna e le girai la domanda: "Nonna, ma io quanti anni ho?" e lei: "Mai troppo pochi, tesoro. Mai troppo pochi!"


Tutto questo mi è tornato in mente quando, una decina di giorni fa, sono stata proprio al Grand Hotel Parker's per partecipare alla cena di gala in occasione della pubblicazione del libro "Cento anni di pasta", edito da Malvarosa Edizioni, in cui si rende omaggio al Pastificio Di Martino, che festeggia appunto il primo secolo di attività.

Il libro, che come tutti i volumi pubblicati da Malvarosa ha un'impostazione grafica curatissima e controtendenza, ripercorre, oltre alla storia della famiglia Di Martino e della sua totale dedizione all'arte del fare la pasta, - avvincente come un romanzo - la storia del costume degli ultimi cent'anni attraverso una serie di tappe significative che hanno cambiato le nostre abitudini, alla cui luce quella di mangiare la pasta rimane l'unica costante.

Nel libro compaiono, suddivise sacrosantamente per stagione, cento meravigliose ricette di pasta a volte tradizionali e a volta innovative che, vi assicuro, fanno venire voglia di mettersi immediatamente ai fornelli tanto sono accattivanti.

Nell'attesa di sperimentarne qualcuna da condividere con voi, ho preparato un'altra ricetta che nel libro manca ma che, essendo fra le preferite di nonna Carla, mi è sembrata perfetta per ricordarla.


FRITTATA DI SCAMMARO
per 4 persone

300 g di spaghetti
4 o 5 cucchiai di olio EVO
100 g di olive di Gaeta
un pugnetto di capperi (i miei sono sempre quelli che il consorte mi porta da Stromboli)
un pugnetto di uva passa
un pugnetto di pinoli
2 acciughe sotto sale
1 spicchio d'aglio

Per i non napoletani, ma forse anche per qualcuno di loro, vado subito a spiegare cos'è la misteriosa frittata di scammaro. Lo scammaro non è un ingrediente e non è neanche un metodo di cottura, semplicemente - in napoletano antico - lo scammaro è il mangiare di magro, quello che, per capirci, si adottava in quaresima.

In questa frittata di pasta quindi non compaiono né uova né salumi, e il modo in cui gli spaghetti si saldano l'un l'altro in me, ancora oggi, sortisce la stessa meraviglia di quando ero bambina.

Si procede così: mentre si mette a bollire l'acqua nella quale si cuocerà la pasta, si versa l'olio in un pentolino e vi si fa rosolare l'aglio. Prima che si colori troppo si aggiungono le acciughe e quando queste si saranno disciolte, le olive denocciolate e i capperi ben lavati. Si fa rosolare il tutto per un paio di minuti, quindi si spegne e si aggiungono uva passa e pinoli.


Si lessano poi gli spaghetti al dente, si scolano e - qui sta il trucco perché la frittata riesca - si rimettono nella pentola e si mescolano energicamente per qualche minuto, in modo che l'amido in essi contenuto li leghi l'un l'altro. A questo punto si condiscono con l'intingolo di olive, capperi, uva passa e pinoli e si assaggiano - mi raccomando, è fondamentale! - per verificarne la sapidità prima di aggiungere eventualmente altro sale (olive e capperi possono essere traditori).

Si continua poi ungendo appena una padella il cui fondo misuri sui 22 centimetri e, una volta che sarà ben calda, ci si versano gli spaghetti conditi.


Si cuoce a fuoco vivace per 5 minuti in modo da far sì che si formi una bella crosticina, poi si abbassa la fiamma al minimo e si continua la cottura per altri dieci minuti allo scadere dei quali, aiutandosi con un piatto, si gira la frittata e si ripete lo stesso procedimento di cottura fatto in precedenza. Si asciuga poi la frittata su della carta assorbente e si mangia subito, quando è ancora croccante. 
Molto meglio se con le mani.

 


lunedì 10 settembre 2012

Una certa idea di Provenza


Le vacanze estive in casa Gastronomica sono merce rara. I motivi sono vari: le mie sospensioni del contratto di lavoro ondivaghe che spesso mi vedono intenta a sceneggiare sotto il solleone, la difficoltà di trovare compagni di viaggio dato che la maggior parte dei nostri amici - saggiamente - va in vacanza a luglio, l'arduo compito di trovare qualcuno di affidabilissimo a cui lasciare in custodia i cani e, non ultimo, l'impossibilità di scegliere una meta che renda felice sia me che il consorte.

Quest'anno, quando abbiamo assodato che la mia unica settimana libera sarebbe stata quella di ferragosto e che no, era impensabile che la trascorressimo a Napoli, è drammaticamente partito il toto-destinazione. Il consorte voleva andare al mare e io invece no. Allora ha proposto Berlino, ma per me è impensabile visitare una grande città in piena estate, quando ad affollarne le strade ci sono solo turisti. Così ho proposto la montagna, ma lui era certissimo che si sarebbe annoiato a morte. Voleva qualcosa di più dinamico, di più vario... E allora ti becchi la Provenza - ho pensato fra me e me, certa di aver finalmente trovato la nostra meta.

Convincerlo non è stato difficile, non dimentichiamo che il consorte è per metà francese e il richiamo della madre patria ha subito fatto presa. Inoltre, diciamolo, la Provenza è una di quelle mete del cuore, uno di quei posti in cui si desidera andare fin da quando se ne ha memoria. Un posto romantico, magico, perennemente profumato di lavanda, dove tutto è un po' fané, délabré, delavé, ma con tanto tanto charme. O almeno così pensavo...

O donne che avete plasmato la vostra idea dell'amore guardando French kiss e Un'ottima annata, che avete sospirato alla vista di mobili decapati e bacili di zinco pensando che intorno a quelli avreste voluto costruire la vostra casa, che vi illanguidite alla vista di una pianta di lavanda e vi siete cimentate nella preparazione di qualsiasi tipo di tapenade nell'attesa di poterne assaggiare una artigianale fatta in loco, ho una tremenda notizia da darvi: la Provenza non esiste.

Probabilmente sto svelando un segreto di quelli che tutti conoscono anche se nessuno lo ammette, perché mi rifiuto di credere che sia stata la prima e sola ad accorgersi che la Provenza è un bluff. Per carità, in effetti c'è tutto quello che uno si immagina, ma in dosi omeopatiche, come fosse un'interpunzione che ti sorprende di colpo in mezzo a tante brutture.

Innanzitutto la Provenza è turistica, ma turistica in senso brutto, dozzinale. Abbondano i bistrot pacchiani con le sedie di plastica e gli ombrelloni sgargianti, che spacciano croque monsieur di infima fattura e coca cola come se piovesse, i negozi di souvenir con l'immancabile sapone, gli immancabili mazzolini di lavanda, le immancabili herbes de Provence, e ancora statuine, calamite, fermacarte a forma di cicala o portachiavi con la cicala che frinisce, in modo che, acquistandoli, si possa godere del caratteristico tappeto sonoro provenzale anche una volta tornati a casa.

Di contro, molto di quello che non è pacchiano sembra essere finto. Paesini che paiono lavati col sapone (ovviamente di Marsiglia) ogni mattina, case con gli infissi stinti al punto giusto, cioccolaterie da cui ti aspetti di veder spuntare Vianne (ma lo sanno che Chocolat è stato girato in Borgogna?), vecchietti che sembrano aver vinto il concorso per la migliore interpretazione del tipico vecchietto provenzale e se ne stanno seduti al caffè della piazza - questa volta con tavolini e sedie in ferro battuto - a bere pastis come tradizione vuole.

Guardandoli con un occhio smaliziato, ti accorgi poi che in questi paesi c'è sempre una boutique chic che vende abiti di Ter et Bantine e Valentino, ballerine Repetto e bijoux di Chanel, una gourmandise che spaccia paté, tapenade, miele, spezie, petit beurre e pain d'épice in confezioni talmente deliziose da dare la nausea e un negozio di accessori per la casa dove abbondano le tovaglie di lino in colori polverosi, i bicchieri fatti a stampo, le alzatine, i cestini in fil di ferro e i piatti dall'aspetto demodé che, diciamolo pure, sono gli stessi che ormai si trovano tranquillamente anche in Italia in un qualsiasi negozio Comptoir de Famille.

Certo, la Provenza ha paesaggi bellissimi e percorrendo la Route de Jean Moulin, la Route d'Orgon, Les Alpilles, Le Parc Naturel Régional de Camargue, le Gorges du Loup, o la Route des Crêtes, più volte ci siamo fermati ad ammirarli... ma inevitabilmente i nostri commenti erano "Che bello, sembra la Toscana!", "Incredibile, sembra d'essere in costiera!"

Insomma, bisogna andare in Provenza armati di una bella lente d'ingrandimento e cercare il particolare provando a dimenticare il contesto. Perciò evitate di andarci in alta stagione e forse troverete meno signori panciuti con bermuda e sandali indossati sopra i calzini che vagano bevendo birra.

Evitate poi di scegliere mete smaccatamente turistiche - assolutamente bandite Avignone (una delle città più brutte e fatiscenti che io abbia mai visto), Fontaine de Vaucluse (all'origine forse anche carina, ma il turismo sportivo l'ha trasformata nel trionfo del baretto becero), Les Baux de Provence (un paesino fantasma ormai popolato solo da turisti e impregnato del fetore di patate fritte e cibo da asporto nelle cui stradine bisogna camminare in fila indiana. Mi ha fatto lo stesso effetto devastante che all'epoca mi fece Mont-Saint-Michel), Arles (folla ovunque, negozi pacchiani e, se permettete, gli anfiteatri romani ce li abbiamo anche a casa), Saintes-Maries-de-la-Mer (un avvilente incrocio fra Mondragone e Ischia Porto durante la festa di Sant'Anna), Salon de Provence (chinatown in piena Provenza), Saint-Paul-de-Vence (la succursale chic di via Montenapoleone, con tanto di milanesi sboroni), Grasse (una cittadona devastata dalla speculazione edilizia).

E adesso, dopo averne parlato tanto male, ecco un elenco delle cose che mi hanno colpito al cuore e che - se mai dopo questo post ancora vi pungesse vaghezza di farlo - non dovete assolutamente tralasciare se andate in Provenza.

Innanzitutto i posti  dove abbiamo soggiornato: UnE VuE SuR CouR a Lagnes, minuscolo paesino a una manciata di chilometri da L'Isle Sur La Sorgue. Si tratta di uno chambre d'hotes, praticamente un bed&breakfast, gestito da Marie-Nöelle Begat che ha, nel cortile dove affacciano le due stanze riservate agli ospiti, il suo delizioso atelier di pittura (volendo si possono anche seguire dei corsi).

Le stanze sono state arredate dalla stessa Marie-Nöelle con mobili di recupero, trasformati in pezzi unici con estro e incredibile buongusto mentre alle pareti ci sono molte opere della padrona di casa. La colazione, casalinga ma ricca e golosa, è servita in terrazza, all'ombra del gazebo, e ogni giorno c'è una mise en place diversa.

Marie-Nöelle è una donna creativa, forte, allegra, generosa, piena di vita e di risorse, con la quale è piacevole trattenersi a chiacchierare di qualsiasi cosa, perché ha mille interessi e mille argomenti. È solo grazie alle dritte che ci hanno dato lei e suo marito Michel se al nostro viaggio sono state aggiunte alcune delle tappe più significative.


all'ingresso, subito dopo il cancello...


Tosca che, come dice Marie-Nöelle, è la padrona di Michel


l'antico lavatoio in pietra nell'atelier di Marie-Nöelle


Scott, il gatto di casa. Sicuramente il micio più socievole che io abbia mai conosciuto


un'aiuola in cortile


la finestra sulle scale


 vista dalla terrazza su cui si fa colazione


il mobile con le rondini che domina la terrazza

Il secondo posto in cui abbiamo dormito è talmente bello da non sembrare vero. Si tratta del Mas dou Pastre, che si trova sulla Route de Jean Moulin, esattamente a un chilometro da Eygalières. Questa antica casa di campagna è collocata al centro di un uliveto e un immenso platano fa ombra alla sua facciata. La cura del grande parco e degli ambienti è quasi maniacale, non c'è nulla che sia lasciato al caso e tuttavia tutto è piacevolmente familiare e rilassante.

Le stanze, piccole costruzioni in pietra annesse all'edificio principale (ma volendo si può anche scegliere di dormire in una roulotte gitana rimodernata), sono arredate con vecchi mobili dall'aria vissuta, letti in ferro battuto e i bagni, con le grandi vasche in ferro smaltato e i ripiani per i lavandini rivestiti di zinco, sono talmente belli che a volte sono lasciati a vista.

Ma la cosa davvero impagabile di Le Mas dou Pastre è il parco. Ci sono piccoli angoli attrezzati a salotto sparsi un po' ovunque, un orto così curato da essere commovente, e oggetti di brocantage lasciati in giro come se fossero stati sempre lì, come se avessero cominciato ad usarli negli anni '30 e non avessero poi mai smesso di farlo. E poi, un po' in disparte in un recinto e lontana dalla vista, c'è la piscina, piccola e discreta ma impagabile.

Non si può dire che sia un posto economico e certo non c'è la stessa accoglienza familiare che abbiamo trovato altrove, ma vale la pena rompere il salvadanaio pur di dormirci almeno una notte.


i tavoli per la colazione sistemati sotto il grande platano


trastulli d'antan per i bambini


la nostra stanza


sedie fra gli ulivi


l'orto


l'angolo gipsy


i carrellini per trasportare i bagagli

Il terzo e ultimo posto è la Bastide Valmasque a Biot. Confesso immediatamente che in questo caso potrei essere di parte perché la Bastide appartiene a Claudia e Philippe, che conosco da una vita (Claudia è la sorella del mio testimone di nozze), ma sfido chiunqe a non innamorarsi di questo posto incantato.

La Bastide, che in omaggio a Napoli e a Claudia è di un bel rosso pompeiano, è immersa nel verde e nel silenzio di un curatissimo giardino e racconta, a partire dagli arredi per finire al tè speziato servito la mattina per colazione, la storia di queste due meravigliose persone che hanno vissuto per molti anni - e in parte ancora lo fanno - fra l'Italia, la Francia e l'India.

Alla Bastide si respira un'aria cosmopolita, impregnata di un'eleganza rilassata. Viene voglia di togliersi le scarpe e mettersi comodi, tanto ci si sente a casa propria! L'accoglienza è calda e generosa, Claudia e Philippe si prodigano per fornire ai loro ospiti indicazioni sui posti da visitare, sui ristoranti, sui mercati, sulle spiagge dove fare il bagno e corredano il tutto con piantine home made per far sì che nessuno abbia difficoltà a orientarsi.

Non è raro che si improvvisi un aperitivo sulla bella terrazza o addirittura una cena, con gli ospiti chiamati a cucinare le loro specialità da condividere poi nello spazio esterno dedicato alla prima colazione. Insomma, alla Bastide è facile dimenticarsi che ci si trova in un bed&breakfast tanto ci si sente fra amici a casa di amici. 

E se vi innamorate perdutamente di una qualsiasi delle cose che sono in casa, non c'è alcun problema: alla Bastide qualunque cosa è in vendita... e lo sa bene il consorte che è tornato a Napoli vittorioso con il tritaghiaccio anni '70 che aveva sempre desiderato!


relax in giardino sui lettini indiani


l'angolo del bancone dove c'è tutto il necessario per prepararsi il tè a qualunque ora


Shouka, la cagnolina di Claudia


l'angolo per la colazione sul retro della bastide


una delle mensole in cucina


andando verso il giardino

Ora che sapete dove dormire vi dico dove mangiare e cosa vedere, ma lo faccio rapidamente perché credo di avervi tediato anche troppo (volevo farmi perdonare per i due mesi e passa di assenza).

Vale la pena di andare a cena al Mas Tourteron a Les Imberts, ai piedi di Gordes. Un giardino incantato e cibi deliziosi, anche se il servizio lascia un po' a desiderare.

 
Gradevolissimo anche L'Oustau de l'Isle, a L'Isle sur la Sorgue. D'estate si cena nel patio, dove i tavoli di ferro battuto hanno forme e colori diversi e le porte sono sormontate da mensole zeppe di vecchi fiaschi e bottiglioni enormi. Ma preferite il piatto di formaggi ai dolci, che sono il punto debole del menu.


L'Auberge de Lagnes, a un passo da casa di Marie-Nöelle, è il posto dove in assoluto abbiamo mangiato meglio. Non ci hanno portato nulla che fosse meno che eccellente, dalle entrée ai dessert, e tutto era impiattato con garbo, ma senza la ricerca spasmodica della decorazione. I dolci poi erano commoventi, e scrivendo ancora mi torna in mente il gusto meraviglioso della loro tarte au citron. D'estate si cena per strada, in una piazzetta alberata riparata da una serie di tende sistemate ad altezze diverse, ma sia i tavoli che le sedie sono di plastica e quindi un po' deludenti.


A Eygalières, fermatevi da Sous les Micocoulieres. Pane e tapenade eccellenti, cucina creativa ma intelligente e non solo modaiola. Si pranza in giardino, sotto gli alberi, guardando i molti gatti che si crogiolano al sole. La piccola madeleine servita con il caffè è indimenticabile.


Ancora, alla bouvette della Fondation Maeght, a Saint Paul - un museo meraviglioso, una tappa assolutamente da non perdere - una strepitosa pissaladière, una terrina di verdure con una salsa al dragoncello che richiedeva un applauso e un taboulé con gli scampi deliziosamente fresco e aromatico.


Se capitate a Biot prima che venga l'autunno, andate al Museo Fernand Léger e, prima o dopo la visita, fermatevi a mangiare a La Bouvette du Jardin. È l'ultima occasione che avete per farlo, perché dall'anno prossimo la Bouvette verrà smontata. Si tratta di un chioschetto all'aperto, gestito da Michèle Parnel e sua figlia. In questo luogo incantevole potrete mangiare un'insalata, o una fetta di quiche e delle tarte da standing ovation. La Bouvette du Jardin è la dimostrazione di come il buongusto, la creatività e la perizia possano rendere indimenticabile anche un chioschetto.


Da non perdere: il mercato dell'antiquariato a L'Isle sur la Sorgue. Il paese non è un granché, ma il mercato è da colpo di fulmine. Ad averceli avuti, avrei speso migliaia e migliaia di euro in trouvaille di cucina, mobilio industriale, sifoni, ceste, tavolini in ferro battuto e vecchie insegne luminose.




La Carrières de Lumières nella cava abbandonata ai piedi di Les Baux de Provence.  Sulle immense pareti della cava vengono proiettati quadri di pittori famosi (quando ci siamo andati noi Van Gogh e Gaugain) che sfumano l'uno nell'altro e si animano dando vita a uno spettacolo da pelle d'oca (in parte dovuto anche alla temperatura polare della cava). 


Saint Remy de Provence è un paesone e solo il centro storico è veramente gradevole, ma vale la pena andarci per fermarsi a pranzo al Mas de la Pyramide. Non l'ho inserito fra i ristoranti perché la cucina, che pure è sincera, non è certo uno dei punti di forza di questo luogo. 

Si tratta di una cava che da otto generazioni o giù di lì appartiene alla stessa famiglia. Per secoli i Mauron hanno scavato finendo per costruire nella roccia perfino la loro casa. Al Mas de la Pyramide ormai non si scava più ma Lolo, l'ottantottene ultimo esponente della famiglia che, essendo scapolo e senza figli, ha deciso che alla propria morte donerà il Mas al comune di Saint Remy, coltiva la terra, alleva i polli e cucina per chiunque - alla modica cifra di 25€ per un pasto completo - voglia fermarsi da lui. La famiglia Mauron non ha mai gettato via nulla e così, in una parte della cava, si può visitare una sorta di museo degli attrezzi agricoli, a partire dai vomeri per gli aratri per finire ai trattori. 


la cucina della casa di Lolo


la cucina all'aperto


il pane secco preparato per i polli


tutti a tavola sotto la roccia


la fantastica Riste di Lolo


lusso fra i vecchi aratri

Il Museo Picasso e il Marché Provençal ad Antibes. Picasso è Picasso e non c'è da discutere, ma lo Château Grimaldi, dove il museo è collocato, è talmente bello che varrebbe una visita anche se non ci fossero quei magnifici quadri e quelle fantastiche ceramiche.


Vi avverto, il Marché Provençal di Antibes ha prezzi alla stregua di una gioielleria quindi pensateci bene prima di fare un acquisto, però passeggiare fra i suoi banchi ammirando le merci è un immenso piacere.
Ed è gratis.







Se dovessi scegliere un unico posto dove tornare opterei senza ombra di dubbio per Eygalières. Questo minuscolo paese ai piedi delle Alpilles, una delle zone più belle della Provenza, è discreto ed elegante e non vi è turismo di passaggio.

Tutto è curato, ma allo stesso tempo tutto è vero. Ci sono una boulangerie, una boucherie e una épicerie incantevoli, che però sono negozi di paese e non trappole per turisti. I ristoranti sono gradevoli e accoglienti e non c'è nulla di più piacevole che passare il tardo pomeriggio seduti al Cafè de la Place a prendere l'aperitivo, guardando le persone che passeggiano sul corso.

Ti accorgi che Eygalières è meta di un turismo ricco e stanziale solo quando vedi le auto parcheggiate - tutte d'epoca e in prevalenza Jaguar - o quando t'imbatti in John Malkovich, che lì ha casa. Impigrirvi a Eygalières per qualche giorno è il regalo più bello che possiate farvi.









Infine fate un giro a Gordes, Ménerbes, Tourette sur Loup, Mougins (un po' finto ma delizioso) e soprattutto andate a Digue à la Mer, punta estrema della Camargue, con una bella colazione al sacco, e perdetevi fra i sentierini sabbiosi ad ammirare i fenicotteri.


il castello di Gordes al tramonto


Ménerbes, giunti in cima


In cerca d'ombra a Tourette sur Loup


La cisterna dei pompieri al centro di Mougins


Digue à la Mer


i fenicotteri


Concludo arricchendo l'aneddotica della Gastronomica con un altro episodio imbarazzante. Ancora una volta - come già successo all'aeroporto di Londra a causa di 5 chilo di rabarbaro e 6 di posate d'argento comprate al mercato di Berdmonsy - ci siamo trovati a dover disfare le valigie al check-in per ridistribuire i pesi in modo che entrambi i bagagli venissero accettati.

La cosa comica è stata che solo in quel momento io e il consorte abbiamo scoperto che c'erano tutta una serie di simpatici souvenir che l'uno aveva comprato senza dirlo all'altro per paura di essere rimbrottato. Così se io me ne andavo in giro con mezzo chilo di grasso d'oca, svariati paté (ma non di foie gras), e un'intera fromagerie stipata in valigia, per contro lui aveva arricchito il suo bagaglio con sei bicchieri da pastis, una bottiglia di pastis 51, un tritaghiaccio e una mannaia dell'ottocento che io facevo fatica a sollevare.

Nonostante io abbia fatto sfoggio della mia storica abilità nel fare i bagagli (sono la reginetta dell'hoketi poketi), non c'è stato nulla da fare, abbiamo dovuto pagare ben 55 euro di sovraprezzo bagagli. La colpa, a dire del consorte, era da imputare ai 3 chili di irrinunciabili prugne mirabelle che avevo comprato a Biot (chissà mai perché non alla sua mannaia) che di colpo si sono trasformate nelle prugne più care della storia.


Una simile merce preziosa non poteva certo andare sprecata perciò, seguendo fedelmente la ricetta di Christine Ferber, con una parte ho fatto una confettura con limoni e miele di tiglio e con le restanti una torta che, tagliata a fette e messa in surgelatore, allieterà le colazioni del consorte per un paio di mesi, facendogli ricordare il ridicolo epilogo del nostro viaggio.


TORTA CON MIRABELLE E PINOLI

Per una teglia di 22 cm di diametro

350 g di farina 0
200 g di zucchero
50 g di zucchero di canna
150 g di burro
4 uova categoria A
1 bustina di lievito
1 pizzico di sale
250 g di prugne mirabelle
1 pugnetto di pinoli

Innanzitutto tirate il burro fuori dal frigo e, se andate di fretta, mettetelo al sole per farlo ammorbidire. Nel frattempo lavate le prugne, asciugatele, tagliatele a metà e privatele dei noccioli. In una ciotola lavorate poi il burro ammorbidito con lo zucchero bianco (andate senza timori di frusta elettrica) fin quando il composto non diventerà chiaro e spumoso. Incorporate quindi a questa sorta di crema i tuorli (per carità, tenete da parte gli albumi ché serviranno dopo) uno ad uno avendo cura di non aggiungerne un altro se il precedente non si sarà amalgamato. A questo punto unite anche la farina - già setacciata con il lievito - poco alla volta fino a inglobarla tutta. Quindi è il turno degli albumi montati a neve con un pizzico di sale che, come dice Laura Ravaioli, è più scaramantico che altro, ma si sa, io sono napoletana. Unite poi gli albumi al composto avendo cura di mescolare dal basso verso l'alto e versatelo nella teglia che avrete rivestito con della carta forno bagnata e strizzata affinché aderisca bene ai bordi. Decorate la superficie della torta con le prugne, i pinoli e lo zucchero di canna, e cuocete in forno preriscaldato a 180° per una quarantina di minuti!

Et voila!